Tutta la stazione sembrava deserta.

Non si era neanche stupito quando l’uomo aveva cominciato a parlargli; senza guardarlo, senza neppure girare la testa, come parlasse a sé stesso. Ma parlava sicuramente a lui.

Il metrò era mezzo vuoto e si era sentito un poco a disagio quando l’uomo, almeno aveva pensato fosse un uomo, si era seduto proprio vicino a lui. Carlo lo aveva guardato di sottecchi, con la profonda certezza che l’altro se ne sarebbe comunque accorto; era vestito di nero, nero il soprabito con il bavero rialzato, lungo ben sotto le ginocchia, neri i pantaloni e le scarpe di pelle lucidissima. Nero il cappello a tesa larga, sembrava lo stereotipo del malvagio in un B-movie ma non lasciava nessun appiglio al sorriso.

Si era seduto con la schiena eretta in una posa un poco rigida, le mani appoggiate sulle ginocchia. Carlo non ne poteva vedere il viso, aveva una strana riluttanza a girare la testa ma ne intuiva lo sguardo a inchiodare le mani immobili.

Quando, molto tempo dopo, avrebbe provato a raccontare questa storia, non avrebbe saputo aggiungere un solo dettaglio del viso dell’uomo, avrebbe pensato ancora che doveva essere un uomo. Per forza. Si sarebbe detto che forse, se fosse stato capace di disegnare, ma non lo era, avrebbe saputo trasformare le sue sensazioni in segni, perché le sensazioni, quelle, erano intatte.

Non avrebbe saputo raccontarne il volto ma le parole sì, anche quelle erano scolpite nella sua memoria. Scolpite, appunto: parole senza traccia di colore, di accento, di intonazione, di ritmo. Scolpite immobili e immutevoli come sulla lapide del monumento ai caduti nella piazza del municipio. Non avrebbe saputo raccontarne la voce, l’avrebbe sempre pensata voce di uomo senza nessuna reale ragione. E in realtà, quando avesse lasciato che il dubbio ammorbidisse la pietra dei suoi ricordi, neanche le parole, avrebbe potuto dire di ricordare esattamente. Quelle scolpite, immobili e immutevoli, le aveva sillabate lui, distillate dal senso di quello che l’uomo in nero gli aveva lasciato quella sera in metrò. E su quello non c’erano dubbi possibili.

Non hai più molto tempo per dare un senso alla tua vita. Datti una mossa!

Queste le parole che Carlo avrebbe raccontato, cento volte, senza deviazioni possibili, senza colore, accento, intonazione, ritmo.

Ma quella sera in metropolitana, Carlo era rimasto immobile, cercando di trovare un respiro attraverso la massa delle sensazioni che gli avevano improvvisamente avvolto la testa come un cuscino soffocante. Aveva all’estrema destra del suo campo visivo, le gambe, il nero del soprabito e le mani immobili sulle ginocchia dell’uomo e nessuna voglia di saperne di più di lui. Non voleva girare la testa, o forse non osava o non poteva.

Il treno fermò a Cordusio, qualcuno saliva, qualcuno scendeva. Alla fermata dopo l’uomo in nero si alzò, rapido e fluido. Carlo fu colpito da come il suo muoversi sembrava non risentire della rapida decelerazione del treno, ed era fuori dalle porte prima che il flusso dei passeggeri che saliva a Duomo, disordinato come sempre, potesse ostacolarlo.

Carlo ebbe l’impressione che qualcosa, nel suo corpo o nella sua testa, si fosse sbloccato e di potersi nuovamente muovere ma non si ricordava di aver avuto l’impressione di non poterlo fare, prima.

Si guardava intorno, sorpreso che nessuno sembrasse aver notato l’uomo in nero; molti avevano lo sguardo perso nel vuoto e rileggevano con attenzione puntigliosa le pubblicità a cercare una traccia del tempo trascorso dall’ultima volta che l’avevano fatto, magari quello stesso mattino. Molti cercavano nel cellulare la compagnia che negavano al vicino. Solo in fondo alla carrozza successiva una ragazza leggeva un libro, Carlo si domandò che libro fosse e che tipo di ragazza fosse. La ragazza chiuse il libro e guardò verso di lui, Carlo sentiva il peso del suo sguardo ma non se ne sottraeva.

Così non si era accorto della donna che si era avvicinata con l’evidente intenzione di sedersi al suo fianco, proprio là dove era seduto l’uomo in nero. Ma la donna era davvero grassa, così Carlo si spostò un poco per darle più spazio. Era una donna di colore, un bel colore cioccolato al latte, avvolta in una specie lenzuolo sgargiante di tutti i colori dell’Africa, pensò, un piccolo turbante dello stesso tessuto e una incongrua piccola borsetta di pelle nera. Un velo lucido di sudore faceva risplendere il suo viso tondo illuminato da un enorme sorriso; denti bianchissimi con uno spazio tra gli incisivi che da solo metteva allegria. Grazie, gli disse la donna. Accomodò con cura il suo largo posteriore nello spazio che lui le aveva lasciato, si strinse la borsetta in grembo e si adagiò sullo schienale con un sospiro di evidente piacere.

Si rese conto di non aver risposto al ringraziamento e ne era seccato con sé stesso ma ormai il momento giusto era passato. Forse lei non era dello stesso parere, Carlo sentiva su di sé il suo sguardo diretto che lo chiamava, non poteva rifiutare un ulteriore contatto. Raddrizzò la schiena per girarsi verso di lei. La donna colorata lo guardava diritto con un grande sorriso incoraggiante, sembrava aspettare qualcosa da lui, forse davvero un prego di cortesia. Prego, disse abbassando lo sguardo sulle mani di lei. Indossava un anello con una enorme pietra di un blu scurissimo, forse nera, anche la sua mano sembrava sorridere e Carlo pensò che doveva essere una mano davvero simpatica. Si era concentrato sull’esame dettagliato dei piccoli disegni sull’abito della donna mentre pensava come poteva sottrarsi allo sguardo di lei che sentiva ancora pungente, senza sembrare nuovamente scortese.

Appena lasciata la stazione di Lima, la donna spostò dolcemente la mano con l’anello sul braccio di Carlo che fu costretto a guardarla di nuovo; sorrideva ancora, quasi con tenerezza: io sono arrivata ma tu non hai più molto tempo per dare un senso alla tua vita. Datti una mossa!

Carlo era gelato; avrebbe voluto farle mille domande o forse una sola ma non aveva voce. Lei si alzò a fatica anche appoggiandosi al suo braccio e scese a Loreto non senza avergli lanciato dalla porta della carrozza un ultimo sorriso.

Improvvisamente gli mancava il fiato, respirava affannosamente in cerca di ossigeno ma l’aria della carrozza gli sembrava troppo usata per essergli utile, dovette attendere che le porte si aprissero ancora per scaraventarsi fuori e lasciarsi crollare su una panchina insolitamente deserta. Tutta la stazione sembrava deserta. Seduto con gli occhi chiusi sentiva l’aria fredda spargersi dentro di lui rallentando il respiro e il battito e si trovò a pensare come la donna colorata potesse andarsene in giro con quel vestito leggero e le maniche corte con il freddo che c’era; che gli venisse un tale pensiero dopo quei due incontri sconcertanti lo fece quasi sorridere, forse ne aveva bisogno.

Stai un po’ meglio? Sembrava una domanda ma suonava come un’affermazione. Aprendo gli occhi vide in piedi davanti a sé una ragazza che lo guardava, avrebbe potuto essere la lettrice.

Scusa, mi sembrava che mi guardassi da un po’, mi sembravi agitato e quando ti ho visto scendere di corsa alla mia fermata mi sembrava volessi inseguirmi e mi sono spaventata. Poi ti ho visto qui sulla panchina che sembravi stare male e …

Quindi era proprio la lettrice, aveva sparato tutte quelle parole d’un fiato come se volesse chiedere scusa di aver pensato male. Lei avrebbe detto “sembrava” voler chiedere scusa, un verbo che decisamente le piaceva. Ancora una volta i suoi pensieri lo stupivano, non avrebbe dovuto piuttosto concentrarsi sui recenti incontri? Forse era solo per il sorriso della ragazza, la lettrice carina, ma la sensazione di angoscia che l’aveva fatto scappare dalla metro, sembrava di colpo dissolta, “sembrava” appunto.

Hai per caso notato l’uomo in nero o la donna colorata, cioè con il vestito colorato perché lei era nera, insomma hai notato le persone che si sono sedute vicino a me? Di fronte al suo sguardo vacuo aggiunse: perché dici che sembravo agitato?

Poi si rese conto che quello che gli era successo era troppo strano per essere ricordato, raccontato, tanto meno creduto. No, senti, lascia stare, non importa. Ti ringrazio comunque, magari è meglio se mi prendo qualcosa di caldo, non è che mi fai compagnia?

Così si ritrovarono in un baretto di Viale Monza dove lui sapeva una saletta un po’ appartata, raccolta, luci soffuse e musica classica in sottofondo. Lui un thè al limone, lei una cioccolata con la panna, qualche biscottino che nessuno toccava. Lo sguardo attento di lei lo spingeva a raccontarsi: l’università che procedeva troppo lentamente e di malavoglia, i cento lavoretti per non pesare troppo sui suoi, le cose che avrebbe voluto fare ma che non aveva abbastanza passione, non ci metteva abbastanza impegno, in fondo non ci credeva neanche.

Sognava di incontrare una compagna ideale ma forse anche per quello non aveva abbastanza passione, non ci metteva abbastanza impegno, non ci credeva neanche. Per fare che cosa poi, noi ragazzi che futuro abbiamo davvero?

Improvvisamente lo sguardo di lei aveva perso la presa sulle sue parole e si era fatto severo. Scusa ma adesso devo proprio andare ma tu non hai più molto tempo per dare un senso alla tua vita. Datti una mossa!

Era scivolata verso l’uscita senza che se ne accorgesse lasciandolo incerto se quell’inusuale saluto fosse davvero un già sentito. Era ancora abbandonato nel divanetto della sala da thè con i pensieri che gli fluttuavano disordinati in testa: gli incontri di quel giorno, il racconto che aveva fatto alla ragazza verbalizzando come non gli accadeva da tempo situazioni in sgradevole disequilibrio, la lunga lista di progetti appena abbozzati e di propositi male adempiuti.

La voce della barista lo aveva riscosso da quello stato quasi ipnotico: Signore, mi scusi ma stiamo chiudendo. Andando alla cassa si rese conto che fuori era già buio, che era ancora a molte fermate da casa, che non aveva più molto tempo per dare un senso alla sua vita e che sullo scontrino era segnato solo un thè.

dove lui sapeva una saletta un po’ appartata