
Era pomeriggio tardi, il sole era già sceso stanco a nascondersi dietro gli alberi della foresta del Toni. Caterina camminava lentamente verso casa, il cuore sospeso, sospeso tra la gioia e la preoccupazione.
La gioia perché la nonna le aveva detto, proprio quel pomeriggio, che era pronta, la preoccupazione perché Caterina sapeva che Beatrice, sua madre, non ne sarebbe stata contenta.
Già! Beatrice, che era stata sempre il suo rifugio e il suo calore, con lei aveva condiviso ogni istante dei suoi ricordi, ogni gioco infantile, ogni tristezza, ogni dubbio. Da lei aveva imparato tutte le cose che bisognava sapere e saper fare. Era stata sua madre, sorella ed amica. Fino a che non era apparsa sua nonna.
Era un pomeriggio più o meno come oggi, più o meno alla stessa ora, poco meno di due anni prima. Caterina si ricordava bene perché aveva appena finito il suo secondo periodo, stava ritornando a casa felice di raccontare a sua madre che adesso si sentiva una signorina, come lei le aveva predetto, che aveva superato del tutto le paure del mese prima. Sentiva che per loro due quel giorno cominciava un nuovo modo di dividere la vita, una nuova complicità. Due donne unite contro il resto del mondo.
Gli altri bambini, soprattutto le bambine, le avevano sempre prese in giro perché erano povere, non avevano un papà e un marito. Beatrice era sporca, brutta e trascurata, dicevano, lei era sporca, brutta e stupida, dicevano. Caterina sapeva che non era vero e forse questo la faceva soffrire ancora di più, fino a quando riusciva a rifugiarsi tra le braccia della mamma dove ogni dolore spariva, ogni angoscia, ogni tristezza.
Beatrice usciva raramente di casa e quando lo faceva camminava sempre molto velocemente, quasi di corsa, ancor più raramente portava la figlia con sé. Era capitato, mentre camminavano velocemente per una strada del paese, di incontrare qualcuno, più spesso donne, che apostrofava Beatrice, a volte anche Caterina, con parole cattive, che Caterina non capiva, ma dal tono delle voci e dalle espressioni del viso, sapeva che erano davvero molto, molto cattive. E la gente rideva e si dava di gomito, rideva di loro. Caterina aveva presto capito che il resto del mondo era contro di loro, non sapeva e non capiva perché Beatrice non reagisse ma aveva capito che era la cosa giusta da fare anche con i bambini, e le bambine, soprattutto le bambine, che le davano fastidio.
Ma quel giorno sentiva che tutto stava per cambiare: due donne unite contro il resto del mondo avrebbero potuto difendersi, reagire, magari combattere. E due donne unite avrebbe sicuramente vinto.
Ma proprio quel giorno era apparsa sua nonna.
Se ne stava sul bordo della strada, non proprio sul bordo e non proprio in mezzo. Era chiaro che aspettava qualcuno e che quel qualcuno non avrebbe potuto sottrarsi all’incontro. Era una signora alta, alta almeno quanto Beatrice, che era di tutta la testa più alta della maggioranza delle donne del paese, elegante, più elegante di qualunque donna Caterina avesse mai visto, e non capiva come potesse riconoscere quell’eleganza così estranea alla sua esperienza. Un grosso gatto nero, ma grosso davvero, se ne stava accucciato ai piedi della signora e guardava Caterina con occhi cattivi.
Caterina rallentò il passo, cauta, tesa ma non impaurita, sapeva che la signora stava aspettando proprio lei. Le si avvicinò a fermarsi proprio di fronte, a distanza di un braccio; qualcuno vedendole avrebbe potuto pensare “con aria di sfida” ma non c’era sfida nel cuore di Caterina, solo la certezza che un inatteso destino l’aveva raggiunta e la sensazione che il suo futuro non sarebbe stato facile.
“Buongiorno Caterina, sono tua nonna” disse la signora. “Lo so” rispose Caterina che non aveva mai saputo prima di avere una nonna, una nonna viva intendo, l’aveva capito appena vista la signora elegante così come sapeva che questa non le avrebbe mai mentito.
“Caterina, ormai sei grande, una signorina, ed è tempo che tu sappia un po’ di cose”. Eralda, il suo nome era stato una delle prime “cose” che le aveva svelato, raccontava; Caterina ascoltava, in silenzio. La loro era da sempre una famiglia speciale, così speciale che non se ne potevano neanche dire le ragioni, lo si sapeva e basta. Nella loro famiglia speciale le femmine primogenite erano le più speciali. Il loro essere speciali era un dono, pesante da portare ma che si poteva liberamente accettare o rifiutare. Beatrice, sua madre, l’aveva rifiutato, liberamente. Ma si ostinava anche a non voler trasmettere il dono, opponendosi con l’unica scelta possibile, non avere figlie.
Eralda aveva allora fatto qualcosa di necessario, a suo modo di vedere, che Beatrice aveva trovato ingiusto e quando si era ritrovata incinta di Caterina aveva deciso di allontanarsi per sempre dalla famiglia con l’intento di tenere la bambina lontana dal dono o almeno dalla consapevolezza di questo.
Eralda aveva voluto molto bene a Beatrice e gliene voleva ancora adesso ma, a suo modo di vedere, Caterina aveva il diritto di sapere e di scegliere, liberamente, come aveva fatto sua madre.
Caterina ascoltava e assorbiva tutto quello che la nonna via via le andava svelando, senza sorprese, senza domande, come se, in fondo, avesse avuto già tutto nelle vene e il racconto di Eralda lo stesse solo riportando al cervello.
Le due donne se ne stavano in piedi, l’una di fronte all’altra, ma Caterina si sentiva stranamente leggera come se fosse adagiata su di un soffice materasso di piume, anche se in realtà non ne aveva mai provato la sensazione, e le sembrava che i loro occhi fossero sempre alla stessa altezza anche se Eralda la sovrastava di un bel pezzo. E mentre le parole della nonna smuovevano in lei ricordi nascosti nei geni, cominciava a riconoscere la bellezza e l’eleganza di Beatrice nascoste di proposito al resto del mondo, cominciava a capire le ragioni dell’odio che da sempre le accompagnava e come la propria ignoranza del dono indicibile la facesse apparire stupida agli occhi del mondo.
La sua decisione si costruiva solida con lo scorrere delle parole, delle immagini e delle sensazioni e appena Eralda smise di parlare facendo apparire nello sguardo un inconfondibile punto di domanda, Caterina la trasformò in parole: “Deciderò quando tu mi dirai che sarò pronta, quando avrò saputo e imparato tutto quello che mi servirà per decidere”.
Le braccia di Eralda ebbero il fremito di un abbraccio partito dall’anima ma frenato dal peso di troppi anni di lontananza. “Quando vuoi vieni a casa mia, saprai come trovarla”. Si allontanò velocemente e sparì nell’ombra della foresta seguita dal grosso gatto nero.
Quando arrivò a casa, Beatrice, come sempre, le lesse addosso tutto: l’incontro, il racconto, le domande. Forse perché da un po’ se li aspettava. Non ci fu bisogno di parole perché Caterina capisse che pur avendo desiderato evitare quel momento, la mamma le sarebbe stata vicina, complice e sostegno, come sempre. D’altronde Eralda le aveva ben spiegato che del dono, perché era intorno al dono che tutto girava, e di tutte le cose collegate al dono, in famiglia non si parlava, se ne sapeva e basta.
Dal giorno dopo Caterina cominciò a frequentare la casa di Eralda, che non aveva avuto difficoltà a trovare, imparava a conoscere il dono, a farsene pervadere, a usarne la forza, a sopportarne il peso. Dopo alcuni mesi Eralda le aveva proposto una serie di esercizi pratici, via via più complessi. Quello che turbava Caterina era però rendersi conto che spesso l’esercitare il dono aveva conseguenza sulle cose, le piante, gli animali e le era chiaro che presto avrebbe potuto incidere sulla vita delle persone.
Caterina cominciava ad avere dei dubbi su quelle conseguenze, a domandarsi se fosse bene o male e come avrebbe potuto lei decidere in quale direzione esercitare il dono.
In realtà queste domande se le era fatte già prima di sapere del dono; si ricordava sempre di quando aveva cercato di liberare una mosca intrappolata in una ragnatela. Alla fine la mosca era morta comunque e il ragno che aveva assistito impotente alla distruzione della suo opera maestosa, la guardava con aria di rassegnato rimprovero. Lei avrebbe voluto consolare il ragno o ricostruire a sua ragnatela ma era scappata via vergognosa e in lacrime. Ora temeva che il dono avrebbe aumentato a dismisura la portata dei suoi dubbi.
Quando ne aveva parlato a Eralda, aveva ricevuto in risposta solo un sorriso che non aveva saputo definire: tenero, condiscendente, derisorio? E un insoddisfacente “Lo capirai a suo tempo”. Ma la curiosità e il fascino di tutto quello che stava imparando la spingevano avanti sul sentiero della conoscenza del dono, in fondo si ricordava bene e si ripeteva ogni giorno quello che aveva detto a Eralda il giorno del loro primo incontro: “Deciderò quando tu mi dirai che sarò pronta, quando avrò saputo e imparato tutto quello che mi servirà per decidere”.
Anche Eralda se ne ricordava bene e nell’annunciarle che secondo lei era pronta le aveva domandato, a bruciapelo, “Allora, che cosa decidi?”. Ma Caterina sapeva che le mancava ancora qualche informazione importante: Perché Beatrice aveva scelto di rinunciare al dono? Quando? Prima o dopo essere stata istruita sul suo utilizzo? Perché la sua scelta era così importante da aver rotto con la famiglia privando lei, Caterina, dell’affetto della nonna?
“Certo nonna, deciderò. Ma prima voglio parlarne con la mamma. Presto!”
Eralda rimase per un momento pensierosa poi, seccamente: “Se decidi di fare come tua madre è inutile che torni qui, non avremo più niente da dirci, da condividere. Se invece scegli di essere al servizio del dono, ti aspetto qui, forse non vorrai più stare con Beatrice. E ricordati di trovarti un buon aiutante e di scegliere per lui un nome adeguato. Portalo con te se torni!”
Sulla soglia del salotto stava accucciato con lo stesso sguardo cattivo il grosso gatto nero che Caterina si rese conto di non aver più visto da quel pomeriggio di quasi due anni prima.
Tornando verso casa quella sera Caterina ripensava a tutto questo e faceva girare nella sua testa le domande che voleva fare alla mamma ma non ne trovava il capo. Non ce fu bisogno, come sempre.
Beatrice la accolse con lo sguardo colmo di tristezza, la invitò tra le sue braccia e la strinse dolcemente. “Caterina, ormai sei grande e sai davvero tutto quello che ti serve, io non posso più aiutarti, sapere delle mie ragioni non ti aiuterà, questa volta devi decidere da sola”.
Ci era rimasta veramente male, improvvisamente si era resa conto di essere davvero diventata adulta, di non poter più condividere con Beatrice ogni momento, proprio adesso che come non mai aveva bisogno di lei. Si era sentita improvvisamente abbandonata, rifiutata, sola. Trattenendo a fatica le lacrime che sentiva premere dietro gli occhi si girò di scatto verso la cucina e iniziò a preparare la tavola per la cena, era il suo compito serale. Cenarono completamente in silenzio, non era mai capitato prima, poi Caterina con un “Buona notte” sussurrato, se ne andò in camera sua. Faceva fatica ad addormentarsi, rigirando nella testa dubbi e possibilità. Beatrice le aveva forse negato buone ragioni per rifiutare il dono e questo rendeva meno terribile la predizione di Eralda “Se scegli di essere al servizio del dono forse non vorrai più stare con Beatrice”. Ma era sempre un’ipotesi che non voleva davvero prendere in considerazione. Non poteva rifiutare il dono, non voleva perdere Beatrice, anche se in quel momento se ne sentiva tradita… Si addormentò.
Quando scese il mattino dopo era già tardi, la colazione era pronta sul tavolo, Beatrice non c’era. Mangiò svogliatamente, sentiva la gola chiusa e la testa confusa. Sentendo aprire la porta si girò, la prima cosa che la colpì come una sberla in pieno viso furono gli occhi rossi di Beatrice, non l’aveva mai vista piangere. Beatrice si fece avanti lentamente, si vedeva che cercava di trattenersi ma non riusciva ad evitare di tirare su continuamente con il naso.
Poi si accorse che aveva qualcosa in braccio; era un cucciolo, un gattino nero, sembrava tenero e spaventato, due occhioni enormi spalancati e forse per presentarsi emise un miagolio ridicolmente offeso.
Caterina avrebbe da sempre voluto un gatto, nero, ma Beatrice si era sempre fortemente opposta “Portano malattie” diceva. Era forse l’unico divieto che sua madre le aveva imposto, l’unica paura che le aveva inculcato, l’unica minaccia esplicita nel mondo esterno. L’avrebbe chiamato G.G., come quello del film, l’avrebbe amato come un fratello minore, avrebbe inventato con lui giochi sempre affascinanti, ma un gatto non era mai entrato in quella casa.
Deponendolo in mezzo alla stanza, Beatrice disse solo “Avrà circa quattro mesi. Sarà il tuo aiutante” Il cucciolo rimase pochi secondo incerto, lanciando intorno sguardi che sembravano cercare una via di fuga, poi si diresse verso la bambina, si alzò sulle zampe posteriori, sembrava a chiedere di essere preso in braccio, Caterina lo fece e G.G. (era chiaro a entrambi che si chiamava di G.G. e Caterina si domandò se sua nonna l’avrebbe trovato un nome adeguato) cominciò immediatamente a fare le fusa. Poco dopo già dormiva. Caterina cominciò a starnutire, non riusciva a trattenersi, gli occhi cominciavano a lacrimarle e il fiato a mancarle.
Attraverso lo schermo delle lacrime si accorse che Beatrice, senza smettere di piangere, aveva cominciato a ridere, le sembrò davvero una cosa stupida, una situazione irreale, incomprensibile. Poi di colpo capì, le ragioni di Beatrice, il suo pianto e il suo riso, le proprie lacrime, la scelta che non poteva fare. Lasciandosi contagiare dal riso della madre, abbandonò il povero G.G. sul pavimento e corse ad abbracciare Beatrice. Abbracciate ridevano e piangevano, perché una strega non può essere allergica ai gatti!
E G.G.? G.G. sul pavimento strillava con tutte le sue forze per attirare l’attenzione delle due donne, sembrava assolutamente determinato a non essere lasciato lì, incolpevole rivelatore di segreti fino ad allora taciuti.
Caterina guardò la madre sorridendo: “Una volta? Uno solo, piccolo piccolo?”. Beatrice allargò leggermente le braccia alzando lo sguardo come per dire “Vedi tu, io non voglio sapere”. Un solo piccolo incantesimo e G.G. fu il primo gatto nero anallergico del mondo.

racconto delizioso… e pittorico, per amanti dei gatti neri, innanzitutto, e poi per tutti quelli che vedono la vita come un’avventura un po’ magica
"Mi piace""Mi piace"
Sei sempre trooooppo gentile!!!!
"Mi piace""Mi piace"