
Avevano insistito tanto, Franco e Cristina, fino a che lui aveva esaurito le scuse e aveva dovuto accettare un invito a cena per fargli conoscere il nuovo nato.
Con Franco si conoscevano fin da bambini, avevano fatto insieme gran parte delle elementari e tutte le medie ma soprattutto avevano condiviso praticamente tutte le esperienze che oggi si chiamano “di formazione”.
Avevano suonato di sera campanelli scelti a caso per scappare via di corsa ridendo come scemi, guardato di nascosto i siti porno, chiacchierato, camminato, macinato decine di chilometri in bici, fumato le prime sigarette che poi Franco aveva subito abbandonato. Avevano imparato a masturbarsi, a giocare a scacchi e a poker on line, avevano anche provato a scommettere che poi Franco aveva smesso subito.
In quel periodo avevano cominciato con le ragazzine, erano due bei ragazzi che raccoglievano facile, lui bel tenebroso dalle continue battute ciniche, Franco con i suoi modi gentili e il suo sorriso aperto. Avevano anche avuto le stesse ragazze, più tardi anche contemporaneamente. Ne avevano parlato, a lungo, a fondo. Franco ne traeva un gioia serena, un appagamento divertito. Lui da ogni storia ne usciva turbato, come se si fosse perso qualcosa per strada.
Alle superiori avevano controvoglia fatto scelte diverse, lui allo scientifico, Franco all’alberghiero. Però si davano appuntamento per bigiare insieme e parlare del proprio futuro: Franco voleva lavorare in albergo, come i suoi, magari averne uno tutto suo, lui non aveva idee o forse ne aveva troppe, nessuna davvero appassionante.
Pian piano le loro frequentazioni si erano diradate per via degli impegni non sempre compatibili; non si era ridotta la voglia di stare insieme né l’intensità delle loro chiacchierate che avevano, forse per scelta inconsapevole, forse per consolidata abitudine, limitato alla versione “in presenza”, rifuggendo l’uso altrimenti dilagante del cellulare.
Franco ad ogni incontro portava storie di vita quotidiana che aveva il dono di raccontare come fossero avventure entusiasmanti, lui lo rendeva partecipe dei sui dubbi, delle sue domande, delle sue riflessioni, sulla vita, sul mondo, sul futuro. Le loro chiacchierate, ad un osservatore esterno, avrebbero potuto somigliare ad un duetto jazz dove sarebbe stato difficile trovare un tema comune ma che risuonava inopinatamente armonioso.
Fino alla comparsa di Cristina.
Franco c’era caduto dentro completamente, improvvisamente, definitivamente, almeno così la raccontava. Lui lo prendeva in giro ricordando quanto avevano ironizzato sulla stupidità dell’innamoramento adolescenziale. In realtà era lui che aveva avuto sempre un atteggiamento distante, Franco in fondo ci aveva sempre sperato, che prima o poi sarebbe successo.
Voleva troppo bene a Franco per spingersi a parlarne male, a scoraggiarlo o a mettergli bastoni tra le ruote ma aveva sperato che come di colpo era apparsa nel loro orizzonte così presto tramontasse nel numero delle storie usate.
Ma quando l’aveva conosciuta, Franco era stato ancora una volta dolcemente risoluto, aveva dovuto ammettere a se stesso che Cristina era di un altro livello; sapeva che Franco era stato fortunato ma non riusciva ad augurarsi altrettanto per sé.
Non riusciva a capire come Franco ce la facesse: in quel periodo aveva la scuola, aveva iniziato gli stage in albergo, dedicava una rilevante quantità di ore a Cristina, e ci sarebbe mancato altro, ma riusciva comunque a trovare tempo per loro, per le loro lunghe passeggiate chiacchieranti attraverso le periferie della città. Franco gli parlava poco di Cristina e della loro storia, era sicuramente abbastanza sensibile per capire che sul tema le loro posizioni erano, come dire, disallineate.
Poi si erano diplomati, lui così così, come sempre, Franco col suo bel 100, Cristina con poco meno. Mentre lasciava scorrere i mesi aspettando che qualcosa gli portasse l’ispirazione sulla facoltà da intraprendere, loro avevano cominciato a lavorare, insieme, naturalmente. E insieme avevano messo in cantiere quel bambino.
L’avevano chiamato Lorenzo, come lui. Ma non illuderti, aveva riso Franco quando glielo aveva detto, non è per te, è che si chiama così anche lo zio di Cristina, quello che l’ha tirata su da quando era piccola.
Lorenzo piccolo, come l’aveva chiamato Franco quando glielo aveva pomposamente presentato, ma certo scherzava, dormiva nel suo lettino. Lorenzo grande, come si era autobattezzato per coerenza, lo guardava. Franco era sparito, richiamato ai propri doveri di padrone di casa dalla voce imperativa di Cristina dalla cucina. La mamma di Franco si era ritirata a vivere in campagna dalla sorella lasciando loro la casa di famiglia e sollevandoli da una parte significativa delle loro difficoltà.
Lorenzo piccolo dormiva, Lorenzo grande lo guardava. Sembrava finto, osservazione banale ma vera, con i suoi rotolini di grasso dappertutto, le ditina talmente ben modellate da fare impressione in quel corpo ancora approssimativo, le ciglia lunghe attraversate di quanto in quanto da un leggero tremito. Lorenzo grande lo guardava e pensava che anche lui non tanti anni prima doveva essere stato più o meno così, avrebbe fatto ad un osservatore più o meno la stessa impressione.
Chi sa se qualcuno aveva capito fin da allora quanto stupida sarebbe stata la sua vita: gli sembrava fin qui banale e vuota e tutte le volte che cercava di guardare in avanti non riusciva a intravedere che una nebbia umida e appiccicosa. Chi sa come sarebbe stata la vita di questo bambino, forse avere il suo stesso nome avrebbe pesato su di lui come una maledizione o avrebbe indicato una direzione ineluttabile.
Pensava a chi lo aveva guardato bambino nella culla senza capire, senza immaginare come oggi sarebbe stato riconoscente che tutto questo gli fosse stato risparmiato. Che cosa ci sarebbe voluto? Un bambino così piccolo deve essere fragile come quel gattino che un giorno aveva visto schiacciato dallo scarpone del Trovato, il bullo grande, grosso, stupido e cattivo che avevano avuto in classe per qualche mese. Lui aveva vomitato e il Trovato lo aveva preso in giro per settimane. Ma lui l’avrebbe fatto per risparmiargli tutto quanto.
Ma forse quel bambino avrebbe invece seguito le orme del padre, avrebbe avuto il suo stupido entusiasmo, avrebbe vissuto la vita come un’avventura continua, per poi ritrovarsi padre a diciannove anni. Senza davvero un’idea di come avrebbe potuto gestire una situazione così maledettamente complicata.
Non avrebbe saputo dire quale delle due prospettive sarebbe stata preferibile, forse la terza, quella del gattino.
Mentre si perdeva nei suoi pensieri Lorenzo piccolo aveva aperto gli occhi, e lo guardava. Aveva uno sguardo serio, gli sembrava quasi uno sguardo di sfida. Ma in fondo che cosa gliene fregava a lui di quel bambino, non certo perché casualmente avevano lo stesso nome o perché era il figlio del suo amico. Era solo uno dei miliardi di individui che avrebbero sofferto su questo mondo prossimo all’estinzione. Che facesse la sua vita.
Inventò un malessere poco credibile e di fronte allo sguardo deluso di Franco e a quello interrogativo di Cristina, si scusò rapidamente e uscì quasi di corsa.
Appena fuori dal portone si accese una sigaretta, gli sembrava di non aver sperato altro da tempo, di trovare in quel cilindro bianco una risposta alle domande che davvero non osava porsi. Era sudato, incomprensibilmente, e stava male davvero: un crampo allo stomaco, un mal di testa intermittente, il sapore del fumo in bocca gli sembrava adesso disgustoso.
Invece di avviarsi verso casa, rientrò nel portone e senza saperlo, un gradino dopo l’altro, salì fino al terrazzo. Ci avevano passato pomeriggi interi, lui e Franco, guardando le nuvole, cercando di cogliere attraverso la finestra del secondo piano del palazzo di fronte, i movimenti della Letizia; una volta l’avevano vista per qualche secondo, ne erano sicuri, in mutandine e reggipetto. Avevano fumato le prime sigarette, lui anche le prime canne, Franco non aveva neanche voluto provare. Insomma quel terrazzo era un po’ lo spazio delle trasgressioni e dei ricordi.
Ma adesso, nessuno di quei ricordi gli sembrava meritevole di essere ricordato, quel terrazzo era solo uno spazio un po’ squallido con i supporti arrugginiti e storti dei fili per stendere il bucato e qualche cicca di sigaretta lasciata lì da qualcuno della generazione successiva alla loro.
Si sedette alla balaustra, forse troppo bassa per le norme di sicurezza vigenti, le gambe penzoloni nel vuoto. Le prime volte che l’avevano fatto si erano sentiti degli eroi, pronti a sfidare ogni pericolo a superare ogni paura. Adesso gli sembrava stupido.
Ci sarebbe voluto poco a perdere l’equilibrio e stando male come stava lui in quel momento, non sarebbe stato nemmeno strano. Chissà che cosa avrebbero pensato, che idea si sarebbero fatti Franco e Cristina. E i suoi che, ne era certo, non si immaginavano proprio quali idee gli passassero per la mente e in fondo non sarebbe neanche stati interessati a saperlo. Certo che la gente ne avrebbe parlato, in fondo in città i suoi erano abbastanza conosciuti, sarebbe stato uno scandalo. Forse quella volta la sua vita avrebbe lasciato un segno. In mancanza di meglio.
Spinse con le mani sulla balaustra fino a sollevarsi sui polsi, sentiva il peso che lo spingeva in avanti, sarebbe davvero bastato poco. Ma poi chissà, magari si sarebbe fatto male, molto male, e avrebbe introdotto nella sua vita sofferenze inutili. Rischio eccessivo.
Con cautela portò le gambe all’interno del terrazzo. Accese una sigaretta, poi un’altra, poi scese le scale. Passò davanti alla porta di Franco senza emozioni e scese fino a giù.
Allontanandosi verso casa gli venne in mente che non aveva chiesto a Franco la data prevista per il battesimo visto che doveva fare il padrino.
Che roba inutile!

Bentornato
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Grazie, un abbraccio!
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Una bella storia triste, magnificamente raccontata
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Gentile come sempre!
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