si trasformavano in maschere crudeli, canini aguzzi grondanti sangue

“Ciao. Buon weekend.” “Ciao ragazze, divertitevi.” “Ciao. Ci vediamo lunedì!” “Fate le brave mi raccomando!” “No, no! Non ci penso neanche” “Allora lunedì ci racconti” “Ma senza le minorenni.” “Capito Heidi? Lunedì tappati le orecchie!”

Le voci allegre, le risatine delle colleghe, le solite stupidate di ogni venerdì, quello stupido soprannome e quegli sguardi. Forse perché era l’ultima arrivata, forse perché era troppo timida per partecipare all’allegria generale, forse perché era l’unica minorenne del gruppo, forse perché le continue battute ed allusioni la facevano arrossire e il fatto di arrossire le sembrava sempre una confessione di una colpa che non avrebbe saputo dire, quegli sguardi la facevano stare male. E quel soprannome che le avevano affibbiato proprio per il continuo arrossire sull’aria da bambina. E alla maggiore età le mancavano appena due mesi.

Sapeva, razionalmente, che non c’era cattiveria in quelle battute, in quegli sguardi o nel soprannome ma ne soffriva ugualmente e per un attimo i volti sorridenti di Carla, Giovanna, Adele, Maura, si trasformavano in maschere crudeli, canini aguzzi grondanti sangue come nei film che vedeva di nascosto da sua mamma e che non la lasciavano dormire.

Alla stazione, ad aspettare il locale delle 19 e 13 che risaliva la valle, c’erano i soliti. Tre o quattro gruppetti di ragazzi, rigidamente divisi per paese, a fare gli sbruffoni, lanciandosi tra di loro occhiate di sfida e osservando di sottecchi le ragazze per vedere se qualcuna rimaneva soggiogata dal maschio fascino che erano certi di emanare. Le ragazze chiuse a cerchio stretto a proteggersi come dentro il carapace di una tartaruga o sole, come lei, isolate, in disparte, spesso nascondendosi dietro lo schermo di una rivista o di un raro libro.

Il telefonino no, quello non proteggeva, anzi, dichiarava una disponibilità al dialogo social, un’apertura sul mondo virtuale che una volta manifestata in pubblico appariva pronta a scendere nel reale, magari in uno di quegli scompartimenti affollati e puzzolenti.

Poi c’erano gli adulti, spesso con lo sguardo perso nel vuoto e le spalle un po’ curve. Se s’incontravano conoscenti, gli uomini a parlare con aria dimessa di calcio e ridirsi slogan approssimativamente imparati a memoria di politici alla moda, le donne di pettegolezzi, del prezzo della carne o dei progressi dei bambini, figli o nipoti. Senza allegria, senza speranza.

Era questo che faceva paura ad Alba -aveva un nome così bello, perché le sue colleghe si ostinavano a evitarlo? – ritrovarsi tra qualche anno ad aspettare il treno per il paese parlando senza passione con altre donne tristi come lei di argomenti stupidi e usurati.

Quando le donne della famiglia avevano deciso che la cosa migliore per lei era cercare un lavoro in città senza neanche finire le scuole, Alba era stata indifferente. Da quando il padre era morto il paese aveva perso molte delle sue attrattive. Non c’erano più i sabati a passeggiare nei boschi, con la bella stagione si poteva anche salire su fino alla ferrata del Corno, non c’erano più le sere attorno al fuoco a raccontare i piccoli accadimenti che la voce allegra del padre sapeva trasformare in avventure irripetibili.

La tristezza di sua madre era scesa come una coperta grigia su ogni cosa intorno e il paese che per lei era ancora il luogo delle sue scorribande da bambina, aveva perso tutti i suoi colori.

Gli anni delle superiori erano già stati una sofferenza continua. Aveva scelto ragioneria – veramente sarebbe stato Amministrazione, Finanza e Marketing ma tutti usavano ancora la vecchia dicitura – solo perché poteva frequentare nel paese vicino e il servizio dei pullman era organizzato abbastanza bene dal Consorzio dei comuni della valle. Non amava particolarmente i numeri e aveva vagamente immaginato per sé piuttosto una vita all’aria aperta che sepolta in un ufficio polveroso. Dopo la morte del padre lo svanire del diploma rendeva evanescenti anche i suoi sogni. Niente università, niente studi di Agraria se avesse trovato un lavoro sarebbe stato in ufficio o commessa, magari in fabbrica.

Poi ci si era messo di mezzo don Ruggero, spalleggiato dalle zie nell’assenza di sua madre, e si ritrovava apprendista in questo studio di avvocati importanti che le zie se ne riempivano la bocca con le amiche.

Svegliarsi presto la mattina, fare colazione da sola –la mamma aveva preso a dormire fino a tardi-, correre alla stazione e prendere al volo il treno non era poi così dura. Il treno poi era così affollato che si riusciva a continuare a dormire un poco anche in piedi e non c’era pericolo di sbagliarsi a scendere dato che il treno finiva qui la sua camminata (corsa sarebbe eccessivo per l’ondeggiare stanco delle carrozze sui binari).

Le ore in ufficio passavano. Non era un granché, tante fotocopie, registrare qualche rara fattura fornitori, raccogliere le ordinazioni degli avvocati e delle colleghe e scendere al bar per gli intervalli. Ma Alba era attenta, teneva ben aperti occhi ed orecchie cercando di capire e di imparare; non che sperasse che le cose imparate le sarebbero servite, almeno non a breve o in quell’ufficio, ma questo le faceva passare il tempo più velocemente. Aveva anche preso l’abitudine, senza farsi vedere di prendere nota di tutto quello che le sembrava interessante.

Poi ogni giorno arrivava il momento di riprendere il treno. E tornare al paese grigio della tristezza delle madri vedove, dei vecchi e delle ragazze senza sogni se non quello di un marito, dei figli e una casa con l’orto.

Ma il venerdì sera era peggio. In settimana a casa l’aspettava finire i lavori che la madre aveva trascurato, magari lo stiro che le piaceva per compiacersi delle camicette senza la minima pieghina, cenare in silenzio poi in camera. Vedeva i film al computer, il volume basso per non disturbare, tanto non erano certo i dialoghi che rendevano interessanti gli horror che insisteva a scaricare dai siti pirata, e non sapeva se le facevano più paura i film o la temuta irruzione della guardia di finanza. Almeno così minacciava di tanto in tanto una videata che interrompeva il caricamento ma le avevano detto che non bisognava cliccare sul link che era per scaricare un virus più terribile di quelli proposti dalla sceneggiatura.

Ma il venerdì sera era peggio. Aveva davanti a sé tutto il weekend, con la madre. Qualche volta qualche ex compagna di scuola, forse mossa a pietà dalla sua condizione di orfana, non era stata particolarmente di compagnia neppure a scuola, l’aveva invitata a uscire di pomeriggio. Ma lo sguardo desolato con cui sua madre aveva acconsentito l’avevano spinta a declinare. E gli inviti sono finiti.

Il sabato, non proprio tutti, passavano le zie. Cercavano con finta spontaneità di coinvolgere la sorella, sgridandola per l’apatia e spronandola a essere un po’ più attiva. Ma dedicavano un interesse quasi morboso a conoscere i dettagli del lavoro di Alba. E davvero non c’erano ragazzi in ufficio? Magari qualche avvocatino giovane? E sul treno? Sul treno non aveva conosciuto nessuno? Sembrava che la loro massima ambizione fosse trovarle una via di fuga da quella casa, dalla sua atmosfera soffocante. E per loro, naturalmente, l’unica via possibile era con un anello al dito.

Quando le zie se ne andavano le sembrava di essere una pentola a pressione pronta a scoppiare. Sopportava tutto: il peso di una madre che si considerava morta anzitempo, le ore in ufficio tra incombenze stupide e stupide colleghe, i viaggi in treno sgradevolmente pressata da estranei sudati. Ma l’idea che quella fosse la sua unica via di fuga. E che poi la sua fuga si dovesse arenare in un’altra casa del paese o di un paese vicino… Era davvero troppo!

Quel lunedì era il suo compleanno e le zie avevano deciso di anticipare alla domenica; era stato un pomeriggio orribile, la mamma si era sciolta inutilmente in lacrime come se festeggiare fosse un insulto, la torta era schifosa o forse era tutta l’amarezza che aveva in bocca. Nessuna delle sue ex compagne si era fatta viva, solo don Ruggero aveva fatto un salto.

Quel lunedì, il giorno del suo compleanno, Alba si sentiva a pezzi e forse si vedeva, le colleghe le sembravano più silenziose del solito. Quando rientrò con i caffè del bar ci fu un gran casino, tutti che gridavano, battevano le mani. Non lo capì subito: le stavano facendo gli auguri. Le colleghe si erano messe d’accordo, qualche avvocato si era aggregato, e le avevano preparato una festicciola. Viola dall’imbarazzo, aveva ringraziato cento volte, non era riuscita a trattenere qualche lacrima e le prese in giro conseguenti l’avevano fatta arrossire ancora di più. C’era una torta, questa era buona, e dello spumante che l’avevano costretta a bere, solo mezzo bicchiere ma non c’era proprio abituata.

Poi il regalo: una seduta capelli e trucco dal parrucchiere proprio sotto l’ufficio nell’intervallo di mezzogiorno. Lei non voleva, non si truccava mai, proprio per questo, per i tuoi diciott’anni devi cominciare. Anche l’avvocato titolare aveva insistito. Non poteva davvero rifiutare.

Quando si vide allo specchio a fine seduta non si riconosceva, sembrava davvero un’altra, molto più grande. E, a dire la verità, un po’ puttana. Non avrebbe voluto neanche rientrare in ufficio ma non poteva certo scappare via così.

Cercò di entrare come fosse trasparente ma era impossibile. Le colleghe rimasero dapprima senza fiato, poi di nuovo l’esplosione di urla, complimenti, abbracci, foto, con me, con me, con me. Sei bellissima, bellissima, bellissima. Dagli uffici uscirono tutti gli avvocati, anche il titolare, e altri complimenti, altri sguardi, diversi.

Forse le colleghe non erano poi così male, neanche gli avvocati, forse continuando a stare attenta, capire, imparare anche quel lavoro poteva diventare interessante.

Arrivò un altro venerdì. Poco prima dell’orario il capo la chiamò “Signorina Alba”, non l’aveva mai chiamata per nome, pensava che non lo sapesse neanche il suo nome. “Visto che adesso è maggiorenne non le peserà fare qualche straordinario, potrebbe fermarsi stasera?”. Certo che poteva, l’idea di ritardare anche solo di qualche ora l’inizio di un altro terribile weekend non le dispiaceva di certo. “Devo solo poter prendere il treno, credo che l’ultimo sia alle 21 e 26”.

Ma non doveva preoccuparsi, l’avvocato andava a passare il weekend alla casa che aveva in alta valle e poteva lasciarla a casa passando, quindi grazie non ci sarebbe stato comunque molto da fare.

Tutti erano usciti da un po’ quando sentì l’avvocato chiamare dall’ufficio. Entrando lo trovò in maniche di camicia, era la prima volta che lo vedeva senza giacca, e anche se non era particolarmente smaliziata una luce rapace negli occhi illuminò le sue intenzioni. Alba si girò di scatto e si mise a correre. No, signorina, aspetti, dove scappa? Ridendo. Dovette fermarsi alla scrivania per raccogliere almeno la borsa. Lui le era addosso. La stringeva da dietro sussurrandole di fermarsi, che non c’era da avere paura, che lui sapeva essere generoso, che in fondo in fondo anche lei lo voleva, lui sapeva che cosa ci voleva per lei, l’aveva ben capito.

La faccia flaccida dell’avvocato si confondeva con quelle rugose delle zie, con le maschere crudeli delle colleghe, canini aguzzi grondanti sangue. Le mani che le brancavano il seno erano gli artigli scarnificati degli zombi delle sue paure notturne. Il tagliacarte con cui apriva le fatture non brillava più sulla scrivania, adesso spuntava dalla gamba dell’avvocato. Libera dalla stretta, si girò a raccogliere sulle mani sulle braccia sul vestito il sangue che sgorgava da una ferita e un’altra e un’altra. Si fermò stanca e si lasciò scivolare a terra sorridendo, esangue.

Aveva trovato un’altra via per fuggire dal paese.

Sei bellissima, bellissima, bellissima.