
La sera, quando la villa comunale era chiusa, l’unico posto dove trovarsi erano le panchine della piazza delle Poste. I quattro bar erano occupati da vecchi che giocavano a carte bevendosi pezzi della loro sudata pensione. Colterio non era ancora un posto per giovani. Voi davvero non potete capire, non potete neppure immaginare come stavamo.
Eravamo tutti giovani, sotto i trenta intendo, si cantava e si parlava di politica. Era un ottobre ancora mite, starsene al fresco era piacevole, stare tra compagni ancora possibile.
Cantavamo il “Giovan Paolo Primo blues”, lo so, forse vi sembra irriverente ma vi giuro che era una forma divertente ma rispettosa di manifestare il nostro stupore compiaciuto: un papa che durava trenta giorni era una specie di segno per un mondo che, ne eravamo certi, stava per cambiare, che noi stavamo per cambiare. E non sapevamo ancora che il prossimo sarebbe stato straniero, polacco addirittura! Dopo quasi cinquecento anni; altro che cambiamento!
L’anno dopo ci sarebbero state le prime elezioni europee, pensate le prime, ma a noi interessavano di più le elezioni comunali. Forse anche le politiche, non tutti pensavano fosse una buona cosa.
Noi eravamo, ci sentivamo, la sinistra a sinistra del PCI, si chiamava ancora così: “Partito Comunista Italiano”. Eravamo entrati in parlamento per la prima volta solo due anni prima, nel ’76, noi Radicali e i compagni di Democrazia Proletaria. Lo so che questi nomi vi dicono poco ma pensate che per noi voleva dire il sogno di poter far entrare anche nel nostro comune un po’ di giovani, non più solo quei vecchi barbogi che stavano lì da sempre a realizzare gli interessi del Conte Bianchessi.
L’Italia stava cambiando, l’Europa, il mondo stavano cambiando, anche Colterio doveva poter cambiare. Nel paese vecchio stretto attorno al castello e alla villa del Conte e nelle campagne si votava Democrazia Cristiana e un po’ di destra sparsa. Le famiglie andavano a messa la domenica facendo largo ai Bianchessi che arrivavano per ultimi e il prete li aspettava per cominciare.
Giù alla Storna, nelle case che il padre del Conte aveva fatto costruire per gli operai saliti dal sud a lavorare nelle sue fabbriche, si votava PCI, anche se alle ultime elezioni si era contato un pugno di voti più a sinistra. Ma i comunisti in consiglio comunale erano più che attenti a non dispiacere troppo il Conte che con i suoi affitti moderati teneva ben legati i loro elettori.
Negli ultimi anni però, la popolazione del comune, anzi della Città, come orgogliosamente i coltrini tenevano a precisare – Città di Colterio – era cambiata. Nel grande quartiere residenziale che il Conte aveva costruito approfittando della vicinanza della nuova superstrada, erano venute a stabilirsi qualcosa come ottocento famiglie, poco meno di duemila nuovi elettori. Famiglie borghesi, legate più alla città che a Colterio, senza nessuna dipendenza economica o psicologica dalla famiglia del Conte.
Va be’, vi ho annoiato con un po’ di storia ma serve per cercare di farvi capire. Eravamo giovani, per noi la politica, soprattutto quella locale, era ancora poco più di un gioco, importante ma un gioco.
Era stato Marco Belli ad aprire la partita; lui lavorava in comune, all’anagrafe, era risolutamente di estrema sinistra e la sua famiglia aveva una vecchia ruggine con quella del Conte, si dice legata ad una storia di un paio di generazioni prima quando la nonna del Belli era a servizio nella villa e il nonno aveva voluto affrontare il contino, quello che era poi morto in guerra, proprio in mezzo al paese. Poi se ne erano dovuti scappare via in città dove la nonna non aveva retto a lungo la vergogna e la lontananza.
Era stato il Belli a fare il conto che alle prossime elezioni ci sarebbero volute tre o quattro sezioni per I Giardini di Colterio, il che voleva dire avere un seggio nelle scuole del quartiere. E questo poteva cambiare tutto.
La mia era una delle prime famiglie arrivate a I Giardini, andando a lavorare in città con il pullman conoscevo tutti i ragazzi; non tutti avevano l’età per votare ma occuparsi di politica era normale anche alle superiori, allora. Anche se c’era qualcuno di destra, la maggioranza era progressista anche se non usavamo ancora questo termine.
Io avevo il pallino di far scendere l’interesse dei giovani de I Giardini dall’empireo della riforma del mondo alla pratica quotidiana del paese dove abitavamo, anche se la nostra vita era soprattutto in città. L’incontro con il Belli quando sono andato a iscrivermi all’albo degli scrutatori appena avuta la residenza, ha fatto il resto. Era stato piantato il seme del gruppo della piazza delle Poste.
Il Belli, ma me ne sono reso conto solo molto più tardi, era un grande organizzatore, intelligente, acuto osservatore, assolutamente pragmatico. Aveva riunito un gruppo abbastanza equilibrato di giovani del centro, della Storna e de I Giardini. Inizialmente gli altri erano tutti maschi ma quando hanno visto che con noi c’erano delle ragazze, si sono adeguati. Ed è così che ho incontrato vostra nonna.
Mi è stata subito antipatica, sì sì, ridete voi, non l’avete mai vista discutere di politica. Per lei, chi non lavorava, anzi chi non lavorava in fabbrica, non aveva titolo per dirsi di sinistra. L’alleanza tra studenti e operai era una velleità borghese, lei parlava proprio così, che non aveva spazio nelle rivendicazioni del proletariato.
Era davvero una gran bellezza, quindi non mi dispiaceva cercare, con la mia dialettica melliflua da intellettuale criptoconservatore, anche questa è una sua definizione, di farle accettare il nostro e mio interesse per migliorare la politica locale. Magari non avremmo potuto condividere gli obiettivi a lungo termine a livello nazionale ma mettere un po’ di bastoni fra le ruote della bicicletta del Conte, per quello potevamo stare dalla stessa parte.
E siccome sembrava che fossi l’unico a nutrire questa speranza e questo interesse, spesso ci trovavamo a discutere, allora non litigavamo davvero, abbiamo cominciato dopo, su una panchina appena un po’ appartata. Suscitando forse qualche maldicenza della quale eravamo ignari.
Poi una sera, me lo ricordo bene, era verso la metà del mese, il fattaccio. Mentre stavamo lì sulle panchine arrivò il Carlone con la notizia che avevano fatto il Papa nuovo, un polacco mai sentito. Nessuno di noi era praticante ma l’invadenza della chiesa di Roma sulla politica italiana ci interessava e come!
Ci si divise subito in due gruppi: chi pensava che un Papa straniero avrebbe allentato la presa chi, al contrario, che un polacco per forza anticomunista, sarebbe stato deleterio. Naturalmente vostra nonna ed io eravamo in parti opposte. Volarono parole grosse e dopo Papa Luciani volò anche in cielo il progetto comune per una Colterio migliore.
Lei e i suoi amici fecero campagna insieme al gruppo del Carlone, quello che voi conoscete come lo zio Carlo, che si candidava al consiglio comunale con non so più quale altro gruppuscolo della sinistra estrema. Perché all’epoca lo zio Carlo era cattivo, cattivissimo. Già faceva paura a vederlo con il suo quintale abbondante, la barbaccia nera, sempre vestito un po’ straccio e i suoi richiami ad una “lotta dura senza paura”! Ma in fondo era innocuo, non ci credevano più in molti alla rivoluzione e non ce la fece neanche a essere eletto.
Con la nonna ci siamo poi incrociati qualche volta, due parole, un abbraccio e la sensazione di poterci dire altre cose che non sapevamo quali. Ci aiutò ancora la politica: alle elezioni europee ci siamo ritrovati scrutatori nello stesso seggio del centro. Abbiamo subito ripreso a discutere ma sentivamo che tutti e due ne eravamo contenti. L’ho aspettata finiti gli scrutini e l’ho accompagnata a casa.
Era il 10 giugno 1979, la prima volta che l’ho baciata. La mamma è nata un anno dopo. La nonna è entrata in consiglio comunale alle elezioni successive e ci è rimasta per dieci anni insieme al Carlone. Io non andavo mai alle riunioni, preferivo stare a casa a occuparmi di vostra mamma che era piccola e capricciosa, adesso che siete grandi posso ben dirvelo. Mi raccontavano che le riunioni del consiglio erano diventate, soprattutto grazie alla nonna, delle specie di spettacoli pirotecnici, ne inventavano sempre una per ostacolare i facili progetti del Conte, che non ne era molto contento ma che in fondo si divertiva anche lui.
Ce ne siamo resi conto concretamente quando ci siamo sposati, nel ’86. Praticamente c’era tutto il paese. Il Conte ha voluto celebrare lui il matrimonio, il Carlone era il testimone della nonna, c’era un mucchio di gente sia dal centro che dalla Storna, un bel gruppo anche da I Giardini. La nostra festa di nozze alla fine sembrava più la sagra del paese che una festa privata. Si sono dati da fare in tanti e siamo riusciti a cavarcela senza finire sul lastrico.
Finita la festa, tutto è tornato come prima: il Conte a fare i suoi comodi in consiglio comunale, la nonna e il Carlone a dargli contro, gli altri a far finta di passare lì per caso per non disturbare. Poi sono cambiati i partiti, le liste, le leggi elettorali, il Conte è morto e a curare i suoi affari in consiglio è entrata sua figlia. La nonna e il Carlone hanno lasciato il posto ad altri, forse più preparati, sicuramente meno divertenti.
No, no, non sto mica piangendo! Solo un po’ di nostalgia, di vostra nonna, di quando eravamo ragazzi, di tutte le belle cose che abbiamo fatto. E anche un po’ di dispiacere per tutte quelle che non siamo riusciti a fare.
Quelle elezioni del ’79 ci hanno portato risultati migliori di quanto potessimo immaginare ma evidentemente non sono bastati; adesso tocca a voi due, votate per la prima volta, siatene fieri e fatene buon uso, ché sarebbe ora di fargli abbassare la cresta ai Bianchessi!

Ottimo racconto, che ben sintetizza il complesso intreccio tra politica, vita sociale, e sentimenti privati.
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Mi ricorda tanto un mio momento…. Che bella scrittura, Guido….
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