
Guidava una vecchia Mercedes 190 del ’91, di terza mano. Quando l’aveva comprata, nel 2016, aveva già 234.000 chilometri; in questi ultimi quattro anni ne aveva aggiunti neanche 10.000. Ma era bellissima! Tenuta come un gioiello in cassaforte, pulita splendente, la tappezzeria rimessa a nuovo come appena comprata. Da sempre tenuta in un box.
Era uno dei vantaggi di aver vissuto a lungo facendosi voler bene, aveva tanti amici pronti a dargli una mano e fargli qualche favore quando potevano. Marco faceva il carrozziere, aveva fatto, adesso aveva ceduto al figlio più piccolo che lo teneva come zio. Claudio, che era anche suo vicino, gli aveva venduto la Mercedes ad un prezzo più che onesto e gli aveva concesso l’uso del box a fronte di un impegno sancito da una stretta di mano: alla sua morte avrebbe lasciato la macchina, confidando entrambi che gli sopravvivesse, a uno dei suoi nipoti. Avevano immensa fiducia nella tecnologia tedesca, soprattutto quella del secolo scorso, e nelle capacità del figlio di Marco.
Non che Costanzo avesse intenzione di morire presto, aveva festeggiato da poco gli 80 anni. C’era stata una grande festa nella sala parrocchiale, accesso favorito dai buoni uffici di alcuni tra i suoi amici, anzi di alcune mogli dei suoi amici. La maggior parte di loro, degli amici, non erano proprio grandi frequentatori delle funzioni domenicali, non conoscevano bene il catechismo ma erano delle brave persone, mediamente oneste e generose. E molti di loro avevano mogli pie. E queste avevano amiche.
Alcune delle amiche delle mogli dei suoi amici, Costanzo le conosceva già, magari anche solo di sfuggita, soprattutto quelle che, come lui, vivevano da molto nel quartiere. Molte altre le aveva conosciute in occasione della festa. Molte erano vedove, forse perché aveva fatto attenzione soprattutto alle vedove, molte erano ancora, a modo loro e in rapporto all’età, piacenti. Costanzo, ma tutti lo chiamavano Dino (provate a dire Costantino con accento barese, suo territorio familiare, e avrete la genesi del diminutivo), aveva il sospetto che ci fosse stata una specie di accordo implicito a selezionare le ospiti secondo criteri che avevano a che fare con l’ansia di molti, soprattutto di molte, di vederlo nuovamente accasato. La Pina, sua moglie, era mancata ormai da più di dieci anni, alle donne del quartiere sembrava un tempo sufficiente per il lutto.
Molte delle vedove piacenti presenti alla festa avevano manifestato interesse per Dino e per la sua Mercedes. Dino era ancora, come riconoscevano tutti, un bell’uomo. Non era alto, anzi era piuttosto piccoletto, comunque sopra la media delle vedove. Fisico asciutto ma sodo, sempre abbronzato dalla bicicletta e dall’orto, dava una certa impressione di potenza. Moltissimi capelli bianchi sopra due occhi azzurri sempre sorridenti, denti bianchi, non proprio tutti suoi ma tutti ancora ben attaccati, facilmente in mostra. Brillante in compagnia, scherzava spesso, sempre con eleganza, moderato nel linguaggio, soprattutto con le signore. Che in discussione ci fossero le sorti del campionato o ci si fosse calati nelle cloache della politica, le sue opinioni erano sempre ben argomentate, espresse con calma e offrivano spesso opportunità di mediazione accomodanti. Anche se era laureato, praticamente l’unico del gruppo, non lo faceva mica pesare. Insomma, era un tipo simpatico, ben accetto a tutti.
La Mercedes era color Rosso Oriente, lo aveva scoperto quando aveva dovuto far ritoccare qualche segnetto sulla carrozzeria; per un uomo i segni del tempo aggiungono fascino, Dino era molto orgoglioso delle sue rughette di espressione agli angoli degli occhi, su una macchina fanno davvero sciatto. E siccome quel colore gli piaceva molto, era anzi stato l’elemento che gli aveva fatto accettare la proposta di Claudio superando i dubbi derivanti da un paventato consumo eccessivo, aveva cominciato ad usarlo un po’ dappertutto.
Se la cavava col PC e gli piaceva fare piccole creazioni grafiche. Niente di che. Faceva biglietti di auguri, anche per i suoi amici che lo ritenevano un artista, volantini per iniziative conviviali o benefiche, aveva fatto perfino qualche logo di neonate associazioni locali e nuove imprese artigianali. Cose così, semplici, con Word e Power Point. In tutto questo non mancava mai, anzi spesso era dominante il Rosso Oriente. RGB 166,52,55 HEX #a63437. Del Rosso Oriente conosceva tutto.
Per questo l’aveva notata appena entrata con il Lungo e sua moglie. Il Lungo sarebbe stato Antonio lungo per distinguerlo da Antonio corto, acquisto temporaneo della squadra di calcio a 7 che avevano messo su per un campionato dimenticato di quasi cinquant’anni fa, anzi più di cinquant’anni fa. Il campionato era finito, la squadra, visti anche i dimenticabili risultati, sciolta, Antonio corto dissolto con lei. Ma questo Antonio era rimasto Lungo anche se probabilmente il 90% di quelli che lo chiamavano Lungo a dispetto dei suoi 172 centimetri, dichiarati, di altezza, non avevano la minima idea del perché.
L’aveva notata da così distante, anche se i suoi occhi azzurri non riuscivano più a correggere bene, nella luce fredda dei neon, solo perché sul soprabito scuro aveva colto, senza tema di sbagliare, un lampo Rosso Oriente. Avrebbe voluto precipitarsi per vedere meglio ma lo frenavano una sorta di inconsueta timidezza e la consapevolezza che la moglie del Lungo era un’invadente pettegola che gli stava davvero antipatica. Ma, senza farsi notare, sperava, la teneva d’occhio, seguendo la macchia Rosso Oriente fluttuante nella sala anche tolto il soprabito scuro.
Per questo le era distrattamente a fianco quando il Lungo e la moglie l’avevano mollata per ballare uno stupido ballo di gruppo. “Ciao, sono Costanzo, il festeggiato, ma gli amici mi chiamano Dino” “Ciao, lo sapevo, sono Marcella, quindi ti devo chiamare Costanzo?”
Non aveva capito, forse il sorriso leggermente ironico lo mandava in confusione, forse non era abituato che le battute le facessero altri, perché doveva esserci una battuta che non aveva capito, si sentiva lo sguardo vuoto e anche la testa. Portava un vestito nero semplice ed elegante con un sottile filo di perle, la sciarpina rossa le stava d’incanto. Tra i capelli grigio chiaro qualche ciocca più scura avrebbe potuto nascondere il lavoro di un bravo parrucchiere, anche gli occhi dovevano essere scuri sotto gli occhiali leggermente affumicati con una montatura decisamente femminile senza essere leziosa.
“Finito? Soddisfatto?” Il sorriso era un po’ più marcato con una punta di potenziale fastidio. Si rese conto di averla fissata un po’ troppo insistentemente. Balbettò, meravigliato di sé stesso, “Scusa stavo pensando… Non ho ben capito” “Dicevo che devo chiamarti Costanzo perché non siamo amici, ancora”. Quindi era intelligente, spiritosa e intraprendente, in quell’”ancora” Dino ritrovò tutta la sua spigliatezza e lanciò una delle sue più sperimentate. “Non ci posso credere sapessi il mio nome! Persino alcuni dei miei migliori amici non sanno come mi chiamo.” “Anche a me piace il cinema”
Dino rimase davvero di sale, non aveva mai trovato qualcuno che riconoscesse al volo la citazione, e poi quel suo sorriso che gli diceva “Vai, giochiamo!”. Ma fu solo un attimo.
Dopo il ballo di gruppo avevano messo un valzer “Ti va di ballare? Leggere e ballare sono due divertimenti che non potranno mai fare del male al mondo.” “Anche citare può essere divertimento. Sì balliamo, magari più tardi riprendiamo Voltaire”.
E quel sorriso, sempre più aperto, adesso gli diceva che avrebbero letto altri libri, insieme. E ballato altri balli.

Questo Costanzo con i denti ancora ben attaccati è un personaggio davvero tenero. Autore, ci fai conoscere il seguito della storia?
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