
Troppo spesso, viaggiando per lavoro, mi capita di essere a pranzo o a cena da solo. È una cosa che francamente detesto ma mi devo pur nutrire.
E poi devo pur presentare il rimborso spese al mio rientro sennò quella stronza della Franca, “assistente commerciale”, come dice sempre tirando su il mento e l’aria di credersi la principessa sul pisello, andrebbe subito a dire in giro che non mangio per risparmiare i soldi dell’azienda.
Allora mi costringo a scegliere ristoranti, e alberghi, dignitosi ma non eccessivi, che riescano a bilanciare la mia etica economico/professionale con la necessità di non avere troppi conflitti in azienda. Come adesso, un ristorantino grazioso, pulito, economico ma non misero, con una bella vetrata su una strada alberata e con una bella giornata di sole, anche se un po’ freddina, come oggi.
Aspettando la mia ordinazione mi dedico alla mia attività consueta. Credo che lo sia di molti di quelli che si trovano in situazioni analoghe: guardarmi in giro, cercare commensali che ti ispirino e inventarsi storie, le loro storie. Quelle che mi ispirano di più sono le coppie con lui anzianotto, magari bruttino, grassoccio e un po’ pelato, uno che mi assomiglia insomma, lei un po’ più giovane, magari molto più giovane, carina, ma basta anche non da buttar via.
E la storia che mi invento non deve mai essere banale come quella alla quale, lo so, avete subito pensato. Dipende soprattutto da come parlano, se parlano, chi parla, chi ascolta, se c’è dialogo, se litigano, a bassa voce, ad alta voce, solo con gli occhi. Insomma c’è sempre un mondo di storie dietro le persone e me piace scoprirle. In realtà so benissimo che non le sto scoprendo ma le sto inventando, e ogni volta ho la tentazione di avvicinarli, i miei protagonisti, e verificare quanto la mia storia assomigli alla loro. Non ho mai avuto il coraggio, un giorno magari…
Quando non trovo la coppia giusta è più difficile. Possono essere persone sole o gruppi, solo di soli uomini. I gruppi misti o di sole donne, non so perché, non mi ispirano. Coi singoli è più difficile, devo comporre basandomi solo sull’aspetto o sull’espressione del viso, troppo di frequente bloccata in una maschera che si vorrebbe impenetrabile. Mi aiutano molto le facce che fanno guardando il telefonino. Quasi tutti, prima o poi, più o meno, guardano il telefonino. E fanno facce narranti.
Poi ci sono i giorni fortunati, quando non ho bisogno di inventarmi niente, la storia è già lì, vissuta a fianco a me in tempo reale, di solito ad alta voce. E allora la assorbo, come un parassita, come un guardone, sempre con la paura di essere sorpreso, sempre con la paura che qualcuno, qualcuno dei protagonisti o anche solo degli altri spettatori, mi chieda che diavolo faccio, perché sto guardando, ascoltando, rubando un pezzo di vita che non mi appartiene. E che cosa penso di farci con questa storia che si sta sviluppando vicino a me ma dalla quale io sono escluso, devo essere escluso, non ho nessun diritto di partecipare. Ma nessuno mi ha mai chiesto niente, al massimo uno sguardo interrogativo/spregiativo quando la mia attenzione si è spinta fino ad essere molestamente manifesta.
Oggi è uno di quei giorni fortunati: è una coppia. Sono vestiti eleganti, un’eleganza più che quotidiana, come se fossero usciti o stessero per partecipare ad un evento, una cerimonia. No! No! Ne sono usciti! È vero che sembrano persone molto ben educate ma il rischio di ritrovarsi con una bella patacca sul vestito elegante sarebbe troppo grande se dovessero ancora andarci, alla cerimonia.
Lei una signora direi tra i trenta e i quaranta, non sono molto bravo a dare un’età alle signore e oggi diventa sempre più difficile. Più che l’abbigliamento sono i modi, il tono della voce, il sorriso a disegnarla come una persona elegante. Elegante per cultura, educazione e, evidentemente, livello sociale. Lui è un bambino forse sui dieci anni, presumibilmente suo figlio. Non so se le assomiglia perché lo vedo da dietro, appena di tre quarti, ma ha la stessa aria serenamente appagata, sicura di sé. Una specie di bolla li circonda e li isola dal resto dei clienti, gente come me: mediocri abitanti di questo mondo mediocre sul quale loro, e quelli come loro, galleggiano senza bagnarsi.
Lui ha nel piatto davanti a sé una roba tipo panino con l’hamburger, evidentemente più caro che da McDonald. Lei un incongruente, profumatissimo, appetitoso, abbondante, sicuramente delizioso piatto di fritto misto di mare. Forse sono io che vivo nei pregiudizi ma a vederla non l’avrei fatta da fritto misto. Ed è dal fritto misto che emerge la mia storia.
Lei infilza, elegantemente, un anello di calamaro, sfodera un sorriso teneramente minaccioso: “Non vuoi assaggiare?”. Lui non alza gli occhi dalla forchetta con la quale sta quasi impercettibilmente giocherellando. Lo indovino imbronciato, forse avrebbe voluto qualcosa di diverso dall’hamburger. Forse perché nel piatto non ha le patatine, la loro assenza pesa sul suo giocherellare. “Lo sai che non mi piace il pesce”. La sua voce è piatta, atona, ma io riesco a sentirci una specie di insofferenza repressa; vorrebbe sicuramente dire di più. Chissà che cosa ha dovuto già sopportare oggi, alla cerimonia, ma è davvero troppo educato per lasciarsi andare a inutili recriminazioni.
Il sorriso di lei si fa, se possibile, ancora più luminoso, una sottilissima sfumatura di trionfo si aggiunge alla dolce minaccia latente: “Intanto, non è pesce, è un mollusco. E poi non SA di pesce”. Definitivo. Come una sentenza in Cassazione.
Ma lui non sa che cos’è la Cassazione. E soprattutto non conosce la resa. Alza lo sguardo diretto negli occhi di lei; se lo vedessi poteri dirlo “di fuoco”. La voce resta piatta come prima, appena pochi decibel più sopra e un leggerissimo appoggio sull’ultima sillaba: “Quello non SA, ma io lo SO!”.
La loro conversazione termina qui, entrambi si dedicano alle pietanze, senza fretta ma senza sprechi di tempo, elegantemente. Io li guardo affascinato, non oso quasi muovermi per non turbare quella atmosfera rarefatta. Anche perché sono schiacciato da quell’ultima devastante affermazione.
Mia moglie mi rimprovera sempre di non saper fare più di una cosa alla volta. Effettivamente non riesco a concentrarmi sul mangiare mentre nella mia mente turbina scintillante come in un caleidoscopio quella improvvisamente disvelata verità: “Lui/lei non SA, ma io lo SO”.
Che cosa SO io? Che lui/lei non sa? Che la sua apparenza nasconde la sua vera essenza ma che io sono consapevole di questa discrepanza? Che l’accidente non è coerente alla sostanza? Ma in questa umanità ipocrita quali accidenti sono davvero profondamente coerenti alla sostanza? E sottendiamo davvero una sostanza o siamo solo un casuale ammasso di accidenti? Le maschere che vedo intorno a me fingere di trovare nel telefonino informazioni fondamentalmente interessanti e comunicazioni totalmente appaganti, come sono, anche solo marginalmente, collegate con le persone dietro di esse? La nota spese di questo pranzo che porterò alla Franca, che cosa dice davvero di me?
Io non lo SO ma la Franca lo SA.

un altro piccolo goiello, condito, trattandosi di un pranzo, da un po’ di zen e un po’ di mistero; l’Autore prende spunto da vibrazioni e sfumature per le sue mai banali riflessioni
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