Questo racconto è stato segnalato dalla giuria del Concorso “Il Gatto – Riccarda Miriam Giraudi”, maggio 2021.

Se ne era cominciato a parlare già da qualche mese; inizialmente si trattava di osservazioni indifferenti scambiate incrociandosi magari sul cancello di casa o in giardino. Poi erano intervenuti i vecchi, loro portavano l’esperienza degli anni passati, potevano fare il confronto tra quello che succedeva oggi e quello che avevano vissuto in gioventù o ancora con quello che i vecchi di quando loro erano giovani avevano raccontato. Ed erano tutti concordi: questa volta era molto peggio! E i vecchi avevano aggiunto una certa dose di apprensione alle osservazioni non più indifferenti.
Se ne parlava sempre più. Ad un certo punto sembrava che fosse davvero l’unico argomento di cui discutere, le mamme a spasso con i più piccoli fremevano di paura al solo evocare le ipotesi più disparate, ma troppo spesso ingiustificatamente catastrofiche, che i più creativi avevano cominciato a proporre.
I punti di incontro più frequentati erano diventati centri di diffusione di preoccupazione, nefasti presagi ma anche di irriducibili ottimismi. Si fronteggiavano opposte teorie: “non è niente di grave, passerà e tutto tornerà come prima” contro “niente più tornerà come prima, avremo presto problemi di sopravvivenza, la nostra cultura è destinata a scomparire” oppure contro “è il nostro momento, tutto questo ci renderà più forti, restiamo uniti e il mondo sarà nostro!”. I sostenitori di queste diverse visioni del futuro si affrontavano in accalorate discussioni che sempre più spesso sfociavano in urla selvagge e a volte ci si era fermati appena ad un soffio dallo scontro fisico.
Era giunto il momento di affrontare di petto il problema, analizzare i dati conosciuti, mettere tutte insieme le diverse osservazioni e scegliere, se non di abbracciare un’unica delle ipotesi possibili, almeno un piano di azione comune. Se pure si fossero trovate azione da mettere in campo e non fosse prevalso il punto di vista di chi riteneva che in fondo non si potesse fare niente per cambiare il corso delle cose e la cosa giusta da fare era continuare come sempre e godersi la vita, il più possibile.
Inspiegabilmente, come spesso in situazioni analoghe, tutti avevano registrato un appuntamento: nel grande giardino del museo civico, calata la sera, fra due giorni. E quella sera si ritrovarono tutti. Si era formato un cerchio quasi perfetto la cui forma geometricamente liscia non celava la preponderanza psicologica di quello che tutti riconoscevano, se non come il capo indiscusso, senza dubbio come l’unico che avrebbe potuto mettere un po’ d’ordine in quell’affastellarsi di paure, ipotesi, dubbi e speranze.
Romeo era un nero possente, sempre calmo, disponibile con tutti ma pronto a mostrare le unghie quando qualcuno avesse messo a repentaglio il benessere o anche solo la tranquillità del loro gruppo. Aveva fama di severità e di giustizia ma era sempre capace di comprendere e perdonare, soprattutto i giovani inesperti e irrequieti. Occhi sempre vivi sopra i baffoni imponenti.
Sì, c’erano proprio tutti. Di fianco a Romeo si erano schierati i vecchi già con l’aria di chi ne aveva già viste tante ed era qui solo per cortesia. Gli altri membri del gruppo avevano istintivamente lasciato i posti a lato dei vecchi ai rappresentanti delle colonie vicine, venuti ad ascoltare, forse a portare le loro esperienze e riflessioni ma senza diritto di partecipare alla discussione. In fondo, cioè proprio di fronte a Romeo dall’altra parte del cerchio, visto che un cerchio non può avere un fondo, c’era il gruppo spaurito ma non sparuto, dei nuovi arrivati. Quelli che si erano ritrovati improvvisamente senza casa, non abituati, impreparati alle difficoltà ed alle regole non scritte della vita per strada. E l’apparire improvviso e vieppiù crescente di questi infelici individui era uno dei più preoccupanti fenomeni recenti, uno di quelli che maggiormente aveva dato origine ad inquietudini e dibattiti, non ultimo quello su se e come accoglierli, se e come condividere con loro le risorse del gruppo.
L’atmosfera era composta, quasi solenne, neanche i piccoli ruzzanti nel mezzo del cerchio la disturbavano più che tanto, giocavano quasi in silenzio e se per caso qualcuno eccedeva in entusiasmo, una mamma era pronta a staccarsi del cerchio per acquietarlo con uno scappellotto ben assestato.
Al momento giusto, e tutti sapevano che quello era il momento giusto, Romeo prese la parola.
Cari amici, vecchi e nuovi, cari amici venuti qui da più lontano, sappiamo tutti che sottili inquietudini percorrono da qualche mese le nostre comunità. La vostra numerosa presenza qui oggi, della quale ringrazio ognuno a nome di ognuno di noi, dimostra che ancora una volta siamo pronti ad affrontare uniti le difficoltà che ci si presentano. Ma per prima cosa dobbiamo insieme cercare di capire se di vere difficoltà si tratta, se sì di quale natura e quali spazi di azione ci si aprano. Inizierò riassumendo le osservazioni degli eventi che a molti sembrano anomali, inusuali, poi avvieremo la discussione. Va da sé che manterremo un ordine ragionevole e non faremo cagnara, ci mancherebbe altro.
La battuta era scontata, ma servì ad alleggerire l’atmosfera e fu per questo accolta da una scarica di miagolii di approvazione.
Abbiamo visto prima diradarsi in maniera impressionante la presenza in strada degli umani, dei loro veicoli velenosi e del loro degni compagni abbaianti. Pochi umani circolano mascherati come a Carnevale ma meno allegri. Abbiamo visto avvicinarsi a noi, abbandonati e bisognosi di aiuto, tanti nostri compagni fino ad allora tenuti prigionieri nelle case fino a renderli quasi incapaci di sopravvivere autonomamente. Abbiamo visto perfino rarefarsi la presenza delle zie, quegli utili umani votati al nostro servizio alimentare e oltre. Dopo un periodo nel quale tutto sembrava tornato alla normalità, forse escludendo le mascherate, tutto si è nuovamente rallentato e, fatto che più di ogni altro ci colpisce e addirittura spaventa alcuni di noi, la notte gli umani si sono barricati nelle loro case lasciandoci padroni di tutto il territorio.
Nel silenzio calato dopo le parole di Romeo tutti i gatti, improvvisamente consapevoli che nel frattempo la notte era calata, furono investiti dall’assenza. Assenza di quei rumori e movimenti che, anche se abitualmente soffusi e rari, erano sempre rilevanti, sufficienti a creare un sottofondo vitale sopra il quale era anche divertente scivolare, impercettibilmente felini. Che ne era dunque di questa misura, distintiva della specie, di questo essere leggeri, tenui, invisibili se veniva a mancare il contrasto con le tracce della rude, rumorosa, violenta essenza degli umani?
Non tutti i gatti presenti sarebbero forse stati in grado di formulare un pensiero così complesso, ma la sensazione dell’assenza li attraversava tutti indistintamente. Si sentivano come sospesi in un vuoto che avrebbe potuto finanche assorbire la loro stessa esistenza.
Dopo aver chiesto la parola, un giovane maschio dal carattere turbolento di nome Riccardo attaccò:
E allora? Che cosa ci importa degli umani e delle loro beghe? Ci fanno più danno che altro! Se sparissero anche per sempre dalla faccia della terra noi saremmo benissimo in grado di cavarcela da soli! Non siamo mica cani! (scoppio di miagolii di approvazione e di scherno, per i cani) Non siamo mica cani che senza umani si riducono a una miserabile vita randagia, noi siamo G A T T I! (miagolii e urla di approvazione) SIAMO G A T T I! E VINCEREMO! (le urla si levavano altissime, anche se forse nessuno aveva ben capito che cosa e contro chi eventualmente si potesse vincere. E fortunatamente era stato scelto il giardino del museo civico vuotato da umani che avrebbero potuto, come in altre occasioni e in altri luoghi era accaduto, manifestare violentemente il proprio disappunto di fronte a cotale manifestazione di orgoglio felino)
Scusate se mi permetto di prendere la parola -era Duchessa, una gattuma (come spregiativamente a volte appellavano chi condivideva le case degli umani). Il suo lungo pelo bianco, una volta soffice come una nuvola, orgoglio della sua umana, si era ridotto a ricettacolo di bastoncini, pezzetti d’erba e altre materie non meglio identificate. Non profumava più di lavanda come una volta ma aveva conservato un’aria estremamente dignitosa senza sembrare altezzosa- Noi gattumi, e uso volontariamente il vostro gergo, sappiamo di aver vissuto una vita meno faticosa della vostra, probabilmente meno interessante, meno emozionante, ma non è stata una nostra scelta. Come non ci siamo scelti, non sempre almeno, il nostro umano, il nostro carceriere, come dicono alcuni di voi. Ma i nostri umani, quasi tutti, ci hanno trattato bene, ci hanno lasciato i nostri spazi, e se hanno provato ad importunarci troppo abbiamo sempre saputo affermare la nostra indipendenza, magari lasciando tracce sanguinanti delle nostre rimostranze.
E grazie alle zie, non abbiamo troppi problemi di sopravvivenza -interloquì una giovane mamma senza smettere di cercare di bloccare l’irruenza dei suoi quattro piccoli.
Sì certo -riprese Duchessa- e se noi oggi siamo qui è solo perché i nostri umani non possono più servirci ma tanti dei nostri compagni sono ancora al sicuro, cioè prigionieri, nelle case degli umani. Pensiamo anche a loro.
Al momento opportuno -replicò Riccardo- offriremo loro la scelta se unirsi a noi o tradire la loro natura rimanendo “al sicuro” (miagolii di scherno dagli astanti) nelle case umane. V I V A I G A T T I L I B E R I !!! (miagolii e urla di approvazione) V I V A I G A T T I L I B E R A T I !!! (miagolii e urla più forti)
Apprezzo il tuo entusiasmo -intervenne pacatamente Romeo- ma che cosa proponi, Riccardo? Dico: operativamente, che cosa faresti?
Riccardo sembrò per un attimo preso in contropiede, si stirò in tutta la sua lunghezza mentre lanciava un’occhiata tra il languido e il complice ad una giovane gatta grigia al suo fianco, lasciò una pausa giusta, da animatore consumato, poi, guardando fisso negli occhi profondamente azzurri la gatta -Leila si chiamava- come se parlasse solo a lei ma ben certo che tutti lo sentivano
Lasceremo subito, tutti insieme, vecchi, adulti, giovani e gattini, nuovi e vecchi compagni della colonia, delle altre colonie che vorranno unirsi a noi, tutti i gatti neoliberi che vorranno e che potremo aiutare a evadere dalle case degli umani, lasceremo subito questi spazi inquinati dai veleni e dalla cattiveria degli umani. Ce ne andremo lontani nelle terre dell’abbandono, là dove la natura regna ancora sovrana indiscussa e fonderemo la nostra nuova patria, la nazione dei gatti. E nessuno potrà più DECIDERE DELLE NOSTRE VITE!!!! (le urla dei gatti raggiunsero un livello da concerto di una heavy metal rock band)
Mentre le urla si stavano lentamente placando un lieve scompiglio si era manifestato dalla parte del cerchio più vicina alla cancellata del giardino che in quel punto dava su una strada buia e senza uscita. Romeo aveva appositamente scelto questo angolo perché era il più riparato dal mondo degli umani.
Ma per gli occhi dei gatti il buio non era certo ostacolo e tutti, portando l’attenzione oltre lo scompiglio, poterono osservare la vecchia zia come aggrappata alle sbarre dell’inferriata che guardava verso il gruppo, occhi sbarrati e bocca spalancata. Era un’umana anziana male in arnese che quasi tutti i giorni, arrancando sulle gambe fragili, abbandonava sul muretto della recinzione del giardino qualche ciotola di biscottini e, più raramente, con cadenze che ai gatti sembravano sempre troppo rarefatte, qualche scatoletta di leccornie morbide. Zia Lisa, l’avevano chiamata.
E ora se stava lì. Mai nella sua lunga vita, molto più lunga di quelle dei più anziani dei presenti, aveva potuto osservare un raggruppamento dei suoi pelosi amici (ma non fatelo sapere ai gatti che lei così li considerava, l’avrebbero trovato poco rispettoso) così numeroso e così ordinato, organizzato. Lisa non sapeva se esserne ammirata o spaventata, certo che quell’assembramento trasmetteva un’impressione di potenza, come di una pentola a pressione pronta a esplodere, di una rivoluzione incombente.
Per un attimo Lisa aveva pensato di filarsela via senza farsi notare ma adesso era troppo tardi: un numero crescente di sguardi di gatti si stava orientando verso di lei. E non tutti erano benevoli.
Allora, con lo sguardo sempre rivolto al gruppo, ma in particolare a Romeo di cui anche lei percepiva la personalità imperativa, cominciò, lentamente, a tirar fuori dai suoi sacchetti quattro ciotole di plastica e un sacco di biscottini che distribuì tra le quattro che poi dispose sul muretto debitamente distanziate. Infine sei, dico ben sei, pregiate scatolette che, appena aperte, diffusero nell’aria immobile della sera un ossimorico afrore di bontà.
Il gruppo dei gatti fu percorso da una vibrazione che dalle narici, passando nel cervello subitaneamente tornato rettiliano, si scaricò verso la punta fremente delle vibrisse e delle code. Alcuni osservavano come ipnotizzati il lento allontanarsi della zia, altri concentravano vista e odorato su quelle promesse di ristoro e di delizia, i piccoli cercavano un cenno delle mamme ma tutti erano sospesi in una attesa. A tutti appariva evidente che quella umana, fino ad allora vissuta come docile sostenitrice delle loro esigenze, era lì anche per gettare scompiglio nel momento di queste loro scelte fondamentali. Alcuni volgevano la loro attenzione a Romeo, altri a Riccardo e Leila, che chiaramente percepivano come una quasi unica volontà, altri ancora, soprattutto i gattumi, a Duchessa, tutti a cogliere un movimento, un segno che potesse squilibrare la bilancia del dubbio.
Arturo era un vecchio gatto, orbo per una antica battaglia d’amore, ormai quasi completamente sdentato. Da giovane era stato un tigrato rosso e nero, ora il suo manto spelacchiato era uniformemente del colore dello sporco a coprire un corpo macilento. Poteva nutrirsi solo con alimenti umidi ormai non più ottenibili con la caccia e che quando, raramente, venivano offerti dalle zie, non sempre erano raggiungibili oltre gli egoismi dei più giovani. Ma Arturo era un gatto reso scaltro dalle esperienze e dalle disillusioni della lunga vita, capì che aveva ancora una volta l’opportunità di farsi valere. Scavalcò quindi ogni attesa e si diresse, lento ma deciso, verso le offerte lasciate sul muretto puntando inequivocabilmente verso la più esterna delle scatolette odorose.
Non appena Arturo raggiunse la sua meta il gruppo riprese improvvisamente vita, molti, molte delle mamme con i piccoli, molti dei vecchi e quasi tutti i gattumi, seguirono, pacatamente, per non sembrare deboli, la strada da lui tracciata. Riccardo e Leila, lanciati sguardi di compassione e di disprezzo al movimento dei succubi, presero decisamente la strada che attraversava la notte in direzione della periferia, delle terre abbandonate, della libertà. Dietro di loro una sparuta compagine di idealisti, forse coraggiosi, forse incoscienti. Giovani in cerca di spazi per crescere indisturbati ma anche mamme con i piccoli conquistate dall’idea di un avvenire più sano e sereno, perfino qualche vecchio che sentiva ritornare in circolo aneliti di avventure che aveva creduto ormai sopiti.
Immobili, sparsi come briciole rimaste dal frantumarsi di quello che era stato un possente cerchio di speranza, Romeo e pochi altri. Persi a chiedersi che cosa non avesse funzionato e immaginare nuove strategie per costruire, un domani, una vera comunità di gatti finalmente uniti e padroni del proprio destino.

Uno dei miei racconti preferiti, già per la scelta dell’animale filosofico e pensatore zen per eccellenza, ma anche per i parallelismi con le cose che riguardano un’altra specie, più ricca di corteccia cerebrale e (forse per questo?) talvolta, purtroppo, alquanto più maligna. E poi si percepisce il piacere di trattare un argomento del genere da parte dell’Autore, piacere che è ben percettibile alla lettura, generando così a sua volte un sottile gradevole senso di piacere anche nel fruitore.
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molto divertente!
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