
La prima volta che Franco vide suo padre tornare dal lavoro, ebbe paura. Forse non era la prima volta, era la prima che si ricorda. Ma forse non si ricorda nemmeno, forse glielo avevano raccontato, come gli avevano raccontato che nei suoi primi mesi (anni?) di vita, quando suo padre tornava dal lavoro lui era già a letto che dormiva. Però si ricorda delle domeniche, vestiti della festa, con il vassoio delle pastine che si era andati a comperare tutti assieme, dopo la messa. E i pomeriggi a giocare in giardino; allora si giocava con poco, in giardino, insieme.
La prima volta che Franco vide suo padre tornare dal lavoro, ebbe paura; aveva il viso e le mani sporchi di nero, di grasso, gli occhi arrossati. Lo sguardo stanco si era posato su di lui sorpreso forse di vederlo sveglio, un sorriso tirato che non era quello della domenica. E quando si era avvicinato, quell’odore: sapeva di olio, di macchina, di ferro forgiato. Un odore, ma Franco certo ancora non lo sapeva, che lo avrebbe accompagnato per anni, che in fondo anche adesso lo accompagna nella testa di Franco. Nella testa di Franco suo padre è quell’odore. Di olio, di macchina, di ferro forgiato.
Sgambettava ancora con l’equilibrio instabile e buffo dei bambini piccoli, quando suo padre cominciò a portarlo, orgoglioso, in officina. In officina c’era un odore, simile, ma non era proprio lo stesso. E non tutti gli operai gli sorridevano, quelli che non sorridevano neanche a suo padre, no. Inizialmente condivideva l’orgoglio del padre, si sentiva grande in mezzo ai grandi, poi, man mano, cominciò ad annoiarsi. Tutti sapevano che cosa fare, tutti avevano cose da fare e non avevano tempo per lui. L’officina cominciò a sembragli buia, avrebbe preferito giocare con gli amichetti nei prati; a quel tempo i bambini giocavano ancora liberi nei prati, almeno in paese.
Diventava grande, lo studio si faceva più impegnativo. Una buona scusa e in officina con suo padre non andava quasi più.
Suo padre tornava sempre tardi, aveva smesso la tuta ma per Franco aveva sempre lo stesso odore di olio, di macchina, di ferro forgiato. Si sarebbe detto che la camicia e la cravatta, che sembravano sempre stargli stretti, fossero impregnati di quell’odore ormai un po’ rancido. Si poteva sorprenderlo felice quando un problema difficile, un incidente o un carico di lavoro eccezionale gli davano la scusa per recuperare la tuta con il suo odore ancora rassicurante, odore di lavoro.
Per Franco non faceva differenza; suo padre era sempre via, la domenica non giocavano più insieme e il vassoio delle pastine lo andava a comprare la domestica. Lei ci andava ancora a messa.
Verso la fine del liceo suo padre gli chiese, timidamente, se volesse fare un poco di esperienza in fabbrica. La fabbrica era nuova. La vecchia officina suo padre la teneva ancora, ci era affezionato, ma ci faceva solo lavorazioni sperimentali, “giochi da grandi” li chiamava, con l’aiuto di un paio di vecchi operai.
Franco rispose di no, gentilmente, perché era stato educato bene, alla cortesia con tutti e al rispetto con gli adulti ma dentro di sé sentiva crescere la rabbia. Sentiva che suo padre lo avrebbe voluto in fabbrica. Prigioniero della fabbrica. E del paese.
Quel paese dove adesso tutti mostravano di rispettarlo, magari parlandone male alle spalle, perché, si domandava Franco, come si fa a rispettare davvero uno che se ne va in giro con ancora addosso l’odore di olio, di macchina, di ferro forgiato.
Quel paese che aveva cominciato a sembrargli buio come l’officina da piccolo e dove i bambini non giocavano più liberi bei prati. Quel paese da cui tutti i giovani dicevano di voler fuggire ma non sapevano dove andare.
Lui sì, lui lo sapeva. Se ne andò a Milano, all’università. Studiava con impegno e senza passione. Sentiva la responsabilità di essere il primo della famiglia ed era stato educato bene, alla responsabilità e al rispetto dei soldi spesi. Ma non aveva sogni su che cosa avrebbe fatto dopo e l’opprimeva l’idea di ritornare alla fabbrica e al paese.
Il master alla Bocconi gli servì soprattutto per ritardare, rimandare. Ma una sera, anzi una notte, Franco se ne ricorda bene, con la sua ragazza di allora e un paio di altri amici a fumare, parlare di futuro e di come cambiare il mondo, capì di essere davvero fortunato. Lui lo strumento per cambiare il mondo lo aveva a portata di mano e poteva afferrarlo e nessuno lo avrebbe più fatto restare prigioniero della fabbrica e del paese. Se lui non voleva.
Trovò un po’ di scuse con sua madre e per qualche settimana evitò di tornare a casa. Questa volta non era per rimandare, era per prepararsi meglio, voleva essere sicuro che quella rivelazione non fosse solo l’illusione di una notte, un sogno di fumo. Voleva farla crescere fino a sentirla come un desiderio bruciante nel petto.
Si sentiva pronto. Quella domenica davanti al vassoio delle pastine lo disse al padre: si sentiva pronto a fare un poco di esperienza in fabbrica, disse. Suo padre non era certo un tipo espansivo, lo sapeva, la sua quasi totale assenza di reazioni un po’ lo indispettì ma aveva comunque colto il piccolo lampo di contentezza negli occhi e se lo fece bastare.
In fabbrica lo chiamavano “dottore”, alcuni, ancora memori delle loro tradizioni contadine, “signorino”; qualcuno dei più vecchi, quelli che lo avevano visto sgambettare in officina si permetteva un “Franco” ostentato come una medaglia di fedeltà. Si mise alla prova nei reparti e negli uffici, guardando tutto, disturbando il minimo, sovrapponendo la realtà osservata con le teorie studiate, cercando di capire e facendosi raccontare dai vecchi operai storie e aneddoti della vecchia officina e dell’avvio della fabbrica, trucchi del mestiere, dubbi e proposte.
Suo padre lo vedeva poco, era entrato nel suo ufficio pochissime volte, solo per ragioni di lavoro. Anche se non lo confessava neppure a sé stesso, gli dava ancora fastidio, gli faceva ancora un po’ paura quel vecchio odore stanco di olio, di macchina, di ferro forgiato. A casa non si parlava mai di lavoro; era una vecchia regola che suo padre aveva messo da sempre e sempre rispettato. All’inizio sua madre gli chiedeva come si trovasse in fabbrica ma aveva rinunciato dopo qualche risposta evasiva. Suo padre mai.
“Papà posso parlarti?”. In piedi, con in mano una cartellina che puzza di lavoro lontano un miglio, domenica pomeriggio, in salotto, prima che i suoi si dedichino alla solita televisione, quella domanda strappa violentemente le abitudini rassicuranti e l’atmosfera sonnolenta del giorno di riposo. Un silenzio appena un po’ troppo lungo, un “Certamente!” privo di espressione che sembra tirato con le tenaglie, lo sguardo preoccupato, anzi, più precisamente, diffidente. La madre ricorda improvvisamente qualche cosa di urgente da fare in cucina.
E lentamente, dolcemente, pazientemente, Franco racconta a suo padre una storia. La storia di come vorrebbe cambiare il mondo, il suo, il loro, piccolo mondo, la fabbrica e l’officina e le persone che ci girano intorno, le relazioni, le sensazioni e i sentimenti.
Mentre parla Franco guarda suo padre; vede bene che non capisce, non tutto almeno, che molto gli fa paura, che di molto dubita. Ma ancora non l’ha interrotto perché anche lui è stato educato bene, alla cortesia con tutti e al rispetto con gli adulti. E Franco, che si sente adulto, sa che adesso lo è anche per il padre.
Franco ha finito. Il padre si alza, in silenzio va in cucina a raggiungere la madre lasciando nell’aria un odore soffocante di olio, di macchina, di ferro forgiato.

Le storie sono sempre piccole zattere che ci trasportano in territori diversi. Sono la forza di chi riesce a vedere nuovi orizzonti. E la vita riserva sempre belle emozioni finché si ha una buona storia da raccontare e qualcuno che, a sua volta, sa ascoltarla.
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Ecco una garbata parabola sul rapporto genitori-figli, e la descrizione di un cammino iniziatico che si svolge tra “pastarelle” e odore di ferramenta. Se l’Autore scrivesse poesie o canzoni ci sarebbe qui materiale per una ballata.
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Ciao Guido, sarei curiosa di sapere come avrebbe cambiato il mondo, la fabbrica e le relazioni….
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Per questo ci vorrebbe un saggio di organizzazione del lavoro, se dai un’occhiata agli articoli pubblicati in questo blog trovi già qualche spunto.
In alternativa si potrebbe scrivere un romanzo, un fantasy, però! 😉
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