
Era il 3 di marzo; l’ultimo nostro laboratorio prima della chiusura delle attività del teatro.
Quel giorno avevo il raffreddore e siccome già si stava spargendo la paura del contagio, ho chiesto via whatsapp ai miei compagni se preferivano che restassi a casa. Mi hanno risposto di no.
L’8 ho cominciato ad avere la febbre alta, il 14, finalmente, mi hanno ricoverato. Positivo alla ricerca di RNA di SARS-COV-2, è la dicitura ufficiale.
Da subito messaggi e telefonate sono stati il mio sostegno, i miei compagni sono stati presenti, attenti e affettuosi ma mentre mi appoggiavo sul loro sostegno non potevo evitare due pensieri sgradevoli: che ne sarebbe stato del lavoro che abbiamo fatto insieme. Un lavoro faticoso a volte sofferto ma che cominciava a offrirci brandelli di bellezza, un lavoro che era evidentemente di tutti e per tutti, un lavoro che ci legava, che ci rendeva forti e interdipendenti. Certo non ci sarebbe stato lo spettacolo finale (spettacolo? saggio? lezione aperta? Non ho mai capito se ne esiste una definizione universalmente accettata) e se è vero che si partecipa al laboratorio non per il finale ma per il percorso è anche vero che il finale suggella e rende compiuto il percorso. Senza finale tutto il nostro lavoro sarebbe stato disperso? Sfilacciato in qualche brandello di ricordo, pochi spezzoni di filmato e pagine di testi abbozzati sul computer di Emanuela?
E l’altro, ben peggiore: quell’ultimo martedì, quell’ultima volta che li avevo incontrati, quell’ultima volta che avevamo confuso il nostro fiato, quell’ultima volta, avevo forse contagiato uno di loro?
Questi pensieri mi accompagnano in queste lunghe quasi vuote. Non posso dormire 24 ore.
Va be’ non sono 24, devi togliere pipì, pupú, sgranocchiare qualcosa, visite, terapie, misurazioni varie, diciamo se ne vanno tre ore.
Poi leggi e rispondi ai messaggi, qualche faticosa telefonata, un po’ di FB (che è il livello più elevato di letteratura che riesco a maneggiare in questo periodo) diciamo altre due ore.
Non riesco a dormire 19 ore! Allora vai! Hai tempo per fare cose con la testa!
Progetti: il viaggio a San Pietroburgo è saltato, passeremo al giro di Sicilia. Poi appena rientro sul campo da golf devo scendere di 4 colpi di handicap!
Già fatto? Finito?
Ah no! Posso cominciare a immaginare una piece basata su questa storia. La porteremo in scena con tutto il gruppo e il supporto attivo di tutti gli amici di Koreja.
Saremo tutti insieme sul palco nero di fronte ad una platea nuovamente piena, vedo la gente finalmente sorridente di fronte al pericolo scampato, tutti insieme, come tutti insieme abbiamo atteso questi momenti.
Sarebbe bello! E invece no! Non posso! Il bastardo non mi lascia spazio, mi obbliga a concentrarmi su ogni cellula del mio corpo, su ogni sensazione, su ogni modifica. Ed io che in propriocezione sono vicino a zero, annaspo.
E sento i capelli che si appiccicano (quando mi lasceranno fare una doccia?), cerco di indovinare, prevenire l’arrivo delle prossime fitte di male alla testa.
I segni della mascherina dell’ossigeno ogni giorno più incisi. E ascolto il respiro, quando si spinge spontaneamente e quanto posso forzare prima di uno squasso di tosse. E il fiele nella bocca che cancella i sapori, e quella piccola pressione alla base del collo non sarà l’inizio del mal di gola che i dottori temono?
Le braccia ormai sono pezzi di carne molliccia, come unico centro la sensazione dolente dell’accesso venoso.
E l’oppressione sul petto mi deve preoccupare o è solo l’effetto del preso prolungato delle coperte?
Poi mi alzo per andare in bagno, cerco di recuperare poco a poco un poco di equilibrio, riuscirò ad arrivarci senza appoggiarmi alla parete? E senza fare passetti da 20 cm, come un vecchio, come quello squallido vecchiaccio che mi aspetta in bagno squadrandomi dallo specchio con aria disgustata. Qui chiudo la porta, la privacy, ma ce ne sarebbero di cose da dire.
Poi torno a letto e qui il focus è sulle gambe, quando sono sdraiato non me ne accorgo ma ho le gambe sempre stanche, le cosce dolenti. Le mie belle cosce da ciclista, sciatore, golfista sono ormai pezzi di carne pesanti che si stringono ai femori come per abbracciarli.
E arrivo in fondo ai piedi gonfi, caldi che urlano di voler uscire da sotto le coperte ma se lo faccio dopo due minuti gelano.
Ok, ho finito, posso tornare alla mia piece quando una fitta alla testa mi riporta nel piccolo del mio corpo, a ricominciare il giro.
Adesso che sono tornato a casa lo so, è andata bene e non ho contagiato nessuno ma in quei giorni in ospedale questa preoccupazione si sommava alle altre più personali, più familiari, si spargeva a offuscare anche il sorriso di quei messaggi che quotidianamente mi venivano in sostegno.
In questi giorni, chiusi ognuno nel proprio ambito di solitudine, ci raccontiamo il quotidiano e i tentavi di eccezionale, chi fa il pane o si cimenta in altre culinarie prodezze, chi riattiva l’orto di casa, chi si propone performer nei più disparati, e improbabili, campi dello spettacolo. Trofei forse banali che ciascuno però è pronto a condividere per alzarli insieme come squadra vittoriosa.
Sappiamo che quando finirà faremo una grande festa, forse più di una, abbiamo compleanni arretrati, l’apertura della stagione dei bagni, aperitivi rimandati e una gran voglia di ballare. La faremo.
E poi, più avanti, ci ritroveremo a teatro, ci ritroveremo a Koreja. Potremo in qualche modo riprendere il lavoro fatto insieme? O cominciare un’altra esperienza magari con altri compagni? Forse ci ritroveremo spettatori, partecipi, amici ma solo spettatori e quel 3 di marzo rimarrà nei nostri ricordi la data di una ferita.
Ogni esperienza è una occasione di crescita se la vivi consapevolmente, il teatro, lo spirito del teatro, ti obbliga ad essere consapevole; quella ferita ci lascerà una cicatrice a testimoniare che volevamo crescere, che abbiamo dissodato il terreno, trovato dei semi dormienti e che siamo stati arrestati nel viaggio.
Ognuno per sé, tutti insieme, resti di un gruppo più ampio, sapremo far sbocciare i semi che insieme abbiamo scavato?
Questo brano è stato pubblicato sulla Newsletter del Teatro Koreja del 21 Aprile 2020.
Davvero notevole il racconto dell’esperienza covid-19 vissuta sulla propria pelle da parte dell’Autore, quasi paradigmatica (l’oppressione sul petto da coperte è magistrale…). Sì, andrebbe raccontata a un pubblico largo questa esperienza, condivisa, commentata e trattata anche come potenziale strumento politico e sociale.
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