posso parlarti della gente e dell’ambizione

Ah, l’emozione! Di fronte a frammenti di storie finite per sempre, scorie raccolte ai margini dalla strada principale dello scorrere del tempo, poveri resti di povere cose di povera gente. E a fianco tracce lucenti di intelligenze ancora ingenue, di ostentata ricchezza e di crudele potere e simboli eterni dell’eterna ambizione dell’uomo: l’immortalità.

Fermo in piedi, il fiato trattenuto per non disturbare, fragile al cospetto del sarcofago del faraone, il pensiero ai diversi percorsi che ci avevano condotto fin là, sospeso nello spazio e nel tempo tra il vecchio museo e l’eterna Valle dei Re, tra minuti che spingono impazienti verso mille cambiamenti incombenti e secoli ormai per sempre iscritti nel gelido libro del passato.

Poi un’ombra biancastra in una povera teca quasi invisibile poggiata per terra in un angolo come dimenticata da un curatore distratto, mi ha chiamato.

Era una mummia, accovacciata, uno scrivano del faraone -come recita la targhetta ancor più nascosta- uno dei tanti incolpevoli imbarcati nel viaggio senza fine del faraone per accudirlo e servirlo oltre la fine dei suoi desideri.

“Ehi tu! Guardami!”

Guardarla? Perché? Mi domandavo. Che cosa c’era da vedere in quei miseri resti? Che cosa aveva da dirmi della storia e del tempo, della ricchezza e del potere?

“Ma allora sei stupido! Io posso parlarti della gente e dell’ambizione! Perché – vedi- io ero un uomo! Non una cosa nata morta come il sarcofago che tanto ammiri o tutte le altre insignificante inanimate cose che tanto ti emozionano! Io … ero … un Uomo!”

“Un uomo, un cuore e un cervello. Desideri, sogni e ambizioni. Paure e fatiche… e non sei tu quello che dice che più importante è l’Uomo? Che è l’uomo che fa le cose, che le sogna e le costruisce, e che le fa … belle!”

“Un mio lontano cugino, pescatore sul Nilo, ha piegato quell’amo, un altro, contadino, ha mangiato con quel cucchiaio di legno, mio fratello ha steso la patina d’oro sulla barba del faraone! Loro sono importanti! Io sono importante! Non le cose!”

Doveva essere un vecchio! Già da allora sempre dietro a lamentarsi che i giovani non capiscono e non li rispettano, e che sbagliano tutto! E con quattromila anni di differenza io dovevo sembrargli davvero giovane! Non gli ho risposto e me ne sono andato, lentamente, ma forse più in fretta da quanto avrei voluto. Appena una punta di dubbio e di disagio … e un inizio di domanda: e se avesse ragione?

All’altro angolo della sala, sapientemente accovacciato, come riflesso nel vetro di una teca o in un vecchio film ricolorato, il guardiano del museo ne rimandava un’immagine imprecisa. Abito tradizionale di dubbia pulizia, età indefinibile, probabilmente più giovane di quanto sembrasse, schiena eretta e sguardo severo dritto nei miei occhi, completamente d’accordo con il suo antico progenitore.

Passandogli davanti un timido gesto di saluto.

Un sorriso sdentato “Ciao, Italia!”, non so come fanno ma ci azzeccano sempre.

Un sorriso sdentato. Certo non la più bella ma la cosa più importante della mia visita al museo egizio.

Questo articolo é stato pubblicato sulla rivista Wonderful Time, nei primi anni del 21° secolo.