sparpagliava parole sul foglio bianco

Spargeva, anzi no, sparpagliava, parole sul foglio bianco. Gli veniva sempre da pensare a uno stormo di corvi posato per errore su una nuova coltre di neve; poi percepiva, a volte pian piano, a volte di colpo, mutamenti. Parole sbocciavano multicolori come fiori odorosi di senso, altre si aggrovigliavano, si accartocciavano a proteggere chissà quale inconfessabile nero segreto, la maggior parte rimanevano informi là dove erano per caso cadute.

A volte un vento caldo faceva fondere la neve creando qua e là morbidi avvallamenti, accoglienti, dove poche parole si rintanavano strette trascinando con sé un’immagine. O un pensiero. A volte era un soffio di bora o la sua mano gigante a squassare il disordine ormai divenuto abitudine, spezzando attrazioni e ricucendo pensieri.

Anche il suo cuore cambiava, i suoi occhi, fino a incontrare una storia che volesse essere conclusa o anche solo iniziata. Non sempre; più spesso il tempo o la pigrizia depositavano una patina grigia come di smog, confondendo i segni che finivano per sprofondare nel silenzio dell’insignificante.

Per questo ondeggiava sempre tra l’entusiasmo di una missione profetica e la dolcezza inglobante del nulla inesorabile. Quando pensava a sé stesso, quando riusciva ad allontanarsi dalla voragine bianca del foglio, sapeva che non era bene. Non era bene che il suo umore e le sue energie fossero in balia di quanto le parole turbinanti gli permettevano intravedere di costrutti armoniosi o si disponevano su una curva descritta da una funzione complessa come l’animo umano e definita come la morte dopo la vita. O quanto si disgregassero in molecole, atomi, sfuggiti a ogni legame, segni non codificati tracciati da uno scriba cieco e ubriaco.

Non era bene aver rinunciato ad essere primo motore del proprio destino e del proprio universo.

Forse era proprio qui il nodo, pensare a sé fuori dal campo di neve; forse il suo posto era là in mezzo, tra le parole sparpagliate, con il vento come capitava, leggero come un corvo o come una parola per lasciarsi trasportare nel turbine di una storia. La storia dell’uomo che risaliva la neve e la montagna, sotto un cielo lucente di freddo inseguendo un pensiero limpido.

Aveva lasciato la città qualche mese prima; la città svuotata, arrabbiata, noiosa e ostile. Approfittando di una libertà materiale da famiglie, lavori, miserie, ufficialmente senza meta, inseguendo senza saperlo una libertà più intima o forse un legame che desse senso e peso ai suoi giorni.

Pensava: i suoi ultimi giorni. Ma in fondo ogni giorno è uno dei nostri ultimi giorni, se li contiamo a perdere. Sorrise di tenerezza ripensando a sé ragazzo quando aveva saputo far tesoro di una frase che aveva sentito per la prima volta: “Oggi è il primo giorno di tutto il tempo che ci resta da vivere”.

Poi, come spesso accade, ne aveva diluito il senso in un mare di scuse autoassolutorie, di abitudini soffocanti, di distrazioni colpevoli. Ma non ne aveva dimenticato il testo. Solo oggi, risalendo la neve e la montagna qualche mese dopo aver lasciato in città scuse, abitudini e distrazioni, si rendeva conto che forse quello che stava cercando era proprio dare un peso e un senso ad ogni giorno, a oggi e ad ogni prossimo primo giorno, ad ogni prossimo oggi.

Cominciando magari da ogni singolo passo. Ad ogni singolo passo sentiva le pelli di foca sotto gli sci sostenere il peso del corpo e il ritorno del peso della neve attraverso i muscoli caldi delle cosce gli dava la percezione del senso dell’avanzare.

Se la era quasi dimenticata la sensazione di equilibrio fragile tra la forza di gravità e la forza dell’aderire delle pelli; lo scorrere dei passi lenti, regolari, solidi che lo tiravano verso l’alto con il loro ritmo in due tempi. Blocco, passo, blocco, passo. Blocco: come raccontare l’attimo esaltante quando il corpo poggia lentamente sullo sci avanzato mentre la pelle di foca retrocede millimetricamente ad arpionare la neve e blocca solidamente, aspettando tutto il peso e la spinta? Nel passo lo sci sgravato del peso avanza scivolando mentre l’altro pratica l’equilibrio delle forze; l’esperienza dei passi accumulati o l’indizio alla vista di una diversa gradazione nella neve o l’istinto che non deve spiegare, portano ad inclinare la punta dello sci pochi gradi più a valle, a controllare la forza di gravità, o pochi gradi più a monte a sfidare tenuta delle pelli ed entusiasmo dei muscoli.

Quando si era trovato al punto giusto -aveva sentito che quello era il punto giusto- aveva eseguito automaticamente l’inversione per cambiare direzione nella salita a tornanti: punta il bastoncino a monte dietro lo sci a valle, solleva lo sci a monte in verticale, ruotalo e appoggialo nella direzione cercata, porta a monte l’altro bastoncino per appoggiarti, affianca lo sci a valle ruotandolo orizzontale. Quando ci aveva provato le prime volte, molti anni prima, gli era sembrata complicatissima. Beh, un po’ lo era! Adesso gli era venuta naturale, senza pensarci, come fosse rimasta incisa nella memoria del suo corpo. Esattamente nel tempo di un doppio blocco, passo, senza alterare il ritmo carezzevole della fatica.

Continuava a salire, nel ritmo giusto dei movimenti e del respiro, svolgendo sulla neve il filo di blocchi e passi tra una inversione e l’altra; una traccia che puntava inequivocabilmente verso qualcosa.

Quando era partito non aveva davvero idea di che cosa avrebbe fatto una volta in cima, non era neppure certo di arrivarci, in cima, nemmeno di essere ancora capace di immergersi nel ritmo dei passi. L’inversione no, a quella non aveva davvero pensato. Si era immaginato, fosse arrivato in cima, piantati gli sci nella neve, le punte verso il cielo come bandiere di una conquista, seduto al sole, la schiena contro una roccia, sgranocchiare le barrette energetiche e le albicocche secche della tradizione. Poi basta. Avrebbe voluto scendere? Magari con ai piedi le ciaspole che aveva legato dietro lo zaino caso mai la discesa fosse stata troppo per il suo animo vecchio?  Avrebbe trovato sulla cima quello che stava cercando, o una traccia, un indizio? Per capire che cosa fosse che stava cercando o di un altro passaggio della sua esistenziale caccia al tesoro.

Mentre saliva, il ritmo giusto dei movimenti e del respiro aveva abbracciato pienamente i suoi pensieri; non c’era spazio per domande, ipotesi, tantomeno dubbi. Ma la cima che aveva in mente alla partenza era pur sempre un punto fisico ben determinato e ci era arrivato. Avrebbe potuto continuare ponendosi o meno una meta successiva, fisica, sarebbe stata forse la scelta più facile. Ma sarebbe davvero stata una scelta? Una scelta richiede comunque una decisione tra possibilità alternative. Si imponeva che fosse una scelta, altrimenti tutto il suo salire fin qui sarebbe stato inutile fin da subito. Per questo, piantati gli sci nella neve, le punte verso il cielo come bandiere di una conquista, seduto al sole, la schiena contro una roccia, si mise a sgranocchiare le barrette energetiche e le albicocche secche della tradizione. Lasciando che il suo pensare fluisse sulle nevi intorno a lui, e sopra, e sotto.

Forse la stanchezza nei muscoli vecchi e non più abituati, forse la serena tranquillità del sole riflesso milioni di volte su milioni di cristalli, forse la consolante abitudine di lasciarsi scorrere nel tempo, lo condussero in un’accogliente incoscienza. Una minuscola nuvola appassì per un attimo il sole suscitando un brivido di approssimarsi del freddo che lo riaccolse presente. L’uomo rimise a fuoco i segni neri sparpagliati sulla neve e cominciò a comprendere il senso.

Era la storia di un uomo che disegnava scendendo con gli sci curve lente e dolci, come carezze sull’anima, come l’attesa confidente di un’altra luminosa increspatura del tempo.

La storia di un uomo che tornava a casa a scriverne la storia.

curve lente e dolci, come carezze sull’anima