Questo racconto è stato segnalato dalla giuria del Concorso “Il Gatto – Riccarda Miriam Giraudi”, maggio 2021.

Me ne stavo lì tranquillo sul divano a leggere il giornale (devo dire che leggere il giornale sull’Ipad è molto più comodo: non devi uscire a comprarlo, puoi ingrandire i caratteri come credi e non ti si accartoccia girando le pagine. Per contro avere sottomano il giornale al risveglio ti crea un obbligo morale che finisce per rovinarti la giornata. Sempre).
E come quasi ogni mattina, sul divano mi ha raggiunto il gatto, la gatta veramente. E’ una vecchia gatta nera che va per i vent’anni, dico vent’anni, mica bruscolini. Ma sta bene, benissimo, ha ancora tutti i denti, il pelo lucido e morbido, un po’ cicciotta ma la faccia da gattina. Sul divano si arrampica, non ci salta più su, alla sua età, si avvicina e si lascia cadere, si abbandona, al mio fianco. Appoggia la testina nell’incavo tra la gamba e la pancia e comincia immediatamente a fare le fusa. Se non sono più che pronto a carezzarla, o se smetto anche solo per un attimo, tende la zampa a cercare la mia mano. Lei vorrebbe essere delicata ma ha le unghie sempre affilate, sicuramente non gliele tagliamo abbastanza spesso, e si fa sentire. Ho la mano sinistra piena di segnetti marroncini a ricordo di carezze non abbastanza rapide.
Ma quella mattina no. Mi ha raggiunto sul divano ma è rimasta un po’ distante, accosciata sulle zampe posteriori, nella ben riuscita imitazione di un gatto egizio, la testina leggermente piegata sulla destra, e mi guardava, interrogativa.
“Mbe’, che c’è” le ho fatto. “Perché io no?”. Ho fatto un salto e mi sono ritrovato in piedi a guardarla dall’alto. Sconcertato. Forse avevo sentito male, forse me lo ero immaginato.
Lei continuava a guardarmi imperterrita. Ha due enormi occhi luminosi color ambra. Quella mattina mi sembravano, come dire, tristi. “Perché io no?” ha ripetuto. Allora era vero, avevo sentito bene, la gatta aveva parlato. Non un miagolio vagamente simile ad una parola che potevamo interpretare come ci faceva comodo attribuendole emozioni, sentimenti e educazione assimilati nella lunga frequentazione, erano proprio parole, anche se voi mi insegnate che i gatti non parlano.
Ma non avevo tempo per pormi domande filosofiche sulla realtà, dovevo capire “Perché tu no, cosa?”
“Perché non parli mai di me nei tuoi racconti? Parli spesso del cane o dei tuoi amici, anche se con nomi di copertura si riconoscono benissimo. Ma di me mai, lo dice anche la mamma!”
Che fossero gelosi l’una dell’altra, il gatto e il cane, anzi la gatta e la cana, beh, lo sapevamo da sempre. Ma che questa gelosia diventasse così forte da spingerla addirittura a verbalizzare… Mai me lo sarei immaginato. Che poi si mettessero anche a seguire la mia attività di scrittore dilettante. Almeno il gatto, perché il cane non aveva mai dato segni di fastidio dall’essere apostrofato come “buffo cagnetto”, ma si sa che i cani sono meno permalosi.
L’ho scritto davvero? I cani sono meno permalosi. Cioè, davvero sono travolto da questa foga di antropizzazione degli animali domestici da attribuire loro emozioni umane sul serio?
Sono stato un po’ incerto sul termine da usare: antropizzazione o umanizzazione. Antropizzazione: l’insieme degli interventi di trasformazione e alterazione che l’uomo compie sul territorio allo scopo di adattarlo ai propri interessi e alle proprie esigenze. Umanizzazione: assunzione o conferimento di natura o dignità umana. A parte che avrei qualche dubbio sul concetto di “dignità umana”, il secondo termine mi pare indichi lasciare le cose come stanno e considerarle diversamente, il primo modificare per i propri interessi; beh credo proprio di aver scelto il termine giusto.
Certo che se sento la gatta parlare qualche problema di equilibrio mentale devo averlo.
“Non vorrei sembrare scortese – ma un po’ lo era, interrompendo il flusso dei miei pensieri – ma starei aspettando una risposta. O almeno un cenno di aver sentito la domanda.”
“Scusa ma tu davvero ti aspetti che io mi metta a dialogare con un gatto, magari per giustificare le mie scelte artistiche, o almeno autoriali se artistiche ti sembra eccessivo, quando tutti sanno che i gatti non parlano? E poi che ne sai tu di quello che scrivo? Non dirmi che sapresti anche leggere!”
“Guarda che sei tu quello un po’ tardo; a parte che la nostra capacità di cogliere il pensiero e interpretarlo è decisamente superiore a quella di voi umani, poi tu leggi alla mamma tutto quello che scrivi, fregandone bellamente della sensibilità di chi ti ascolta. Il cane, anzi la cana come sottolinei tu, è ancora giovane, non si rende conto dei danni che stai creando alla sua immagine pubblica e io non glielo vado certo a spiegare. Tanto per dimostrarti quanto i tuoi pensieri siano trasparenti. Ma questi sono fatti tra te e lei. Io voglio sapere di me: perché non parli mai di me nei tuoi racconti?”
“A me sembra, gatto, che il tuo modo di esprimerti ed il tono con il quale i rivolgi a me non siano adeguati alle circostanze. Tu sei pur sempre il mio gatto, io il tuo umano!” Tutto questo fingendo anche con me stesso di non accorgermi di stare utilizzando un sotterfugio di bassa lega per sfuggire alla domanda alla quale non sapevo ancora che cosa rispondere.
“Ma non ti rendi conto che stai utilizzando un sotterfugio di bassa lega per sfuggire alla mia domanda? –ha rilanciato beffarda – E se proprio vogliamo andare sugli aspetti formali, parliamo un po’ di questa insana abitudine di usare il genere maschile così a sproposito. Che cosa ne direbbe la mamma, e le sue amiche femministe? Non ti sa tanto di cultura fallocentrica, di oppressione maschile, di patriarcato domestico?”
Lo sapevo dall’inizio che accettare una cana era stata una debolezza carica di sviluppi pericolosi, sarei stato definitivamente in minoranza numerica. Le femmine in casa stavano erodendo la mia autorità, l’importante ora era difendere almeno la mia autorevolezza. Ma come potevo farlo qui, in mezzo al soggiorno, in piedi, con il giornale in mano (ok non era proprio il giornale ma non possiamo andare troppo per il sottile), gli occhiali da presbite calati sulla punta del naso, il battito accelerato e il pensiero rallentato mentre parlavo, dico proprio parlavo, con una gatta (visto, imparo in fretta) che mi osserva severamente dal divano?
Va bene, sto sognando, adesso mi sveglio e basta. Ma la storia del sogno e del risveglio l’ho già usata in un altro racconto, non mi posso mica ripetere.
“Senti adesso non te la prendere, io ti voglio bene, ti coccolo tutte le volte che vuoi, e, lasciatelo dire, sei abbastanza rompiballe e invadente con questa storia delle coccole, ti difendo dagli assalti inconsulti della cana, ho perfino accettato di farti salire sul letto la mattina presto, cosa che a lei è assolutamente vietato in ogni occasione e a tutte le ore ma …”
“Lo sapevo che sarebbe arrivato un ‘ma’ dopo questo elenco che si vorrebbe autoassolutorio anche se sappiamo entrambi che le coccole fanno bene soprattutto a te che usi le mie fusa come terapia calmante e come giustificazione dei tuoi lunghi soggiorni sul divano. Per quanto riguarda la concessione del letto è un diritto che mi sono conquistata a furia di miagolii nel bel mezzo della notte, e non sai quanto mi sia costato, a me che sono di natura così discreta e schiva”
“Ah… ah… ah… -la mia finta risata al ralenti si voleva sarcastica ma mi è uscita penosamente stentata- discreta e schiva! Tu? Tu che non perdi occasione di metterti in mezzo e di dire la tua non appena ti alzi dal letto, dal divano o dalla cuccia, dove passi la maggioranza del tuo tempo a dormire della grossa.” Cioè vi rendete conto che stavo argomentando ad alta voce con una gatta? Ma ormai era partita così, che potevo farci?
“E se poi la prendi su questo tono te la dico fuori dai denti! Lei è una buffa cagnetta giovane, simpatica e giocherellona, tu sei una vecchia gatta adorabile, certo, simpatica anche, a modo tuo, ma ti manca l’appeal, il fattore X. Insomma non sei letterariamente interessante!” Mi ero già pentito mentre lo stavo dicendo e cercavo un modo elegante per rimediare.
Lei è rimasta ancora qualche istante a guardarmi, offesa, poi, lentamente, cautamente, è scesa dal divano e ha cominciato ad allontanarsi dondolando verso la cucina. La sua coda dritta verso l’alto mi esprimeva chiaramente tutta la sua amarezza.
“No, dai! Non fare così, mi sono lasciato trascinare ma anche tu, insomma, mi provochi.” Si è fermata solo un attimo, il passo sospeso, per farmi capire che aveva sentito. E ignorato. Allora, mentre ripartiva “E dai, scusa, prometto che scrivo qualcosa.” Altra sosta, questa volta ha girato lievemente la testa per lanciarmi in tralice un’occhiata diffidente. “Magari di quando la mattina ti arrampichi sul divano mentre sto leggendo il giornale, mi appoggi la testina nell’incavo tra la gamba e la pancia e cominci a fare le fusa…” Sentivo il tono della mia voce alzarsi, una specie di angoscia saliva in me, come se la sua uscita dalla porta del soggiorno segnasse un momento definitivo.
Si è fermata. Si è voltata a metà. Ha scosso la testa. “Sei scorretto -ha sibilato- non ti parlerò mai più! E poi non sono per niente cicciotta!”. E’ uscita verso la cucina. Ma ero certo che se i gatti potessero sorridere, senza farsi vedere da me, stesse sorridendo.
Mi sono lasciato cadere sul divano sentendomi un po’ in colpa ma sollevato. Sapevo che sarebbe tornata a farsi fare le coccole e non mi avrebbe parlato. Mai più.

Well done!! Graziosissimo
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Chiunque conosca i gatti o conviva con loro leggerà questo dialogo con assoluta compartecipazione, e, per quello che vale, anche il presente commento sta a confermare quanto raccontato dall’Autore, con grande efficacia, e soprattutto veridicità.
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È Lei. La Gatta per antonomasia. Perfettamente descritta e vissuta. Delizioso racconto. Gradevolissima lettura da condividere con le mie due feline….Non parleranno. Ma sono certa ascolteranno e, sornione, sorrideranno alle nostre spalle.
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