
Lasciarsi trascinare giù per la discesa della Chiesa Madre, le gambe sottili cercano di contrastare la forza di gravità che scorre lungo i gradoni di sassi lisciati dal tempo e dai passi di chissà quanti altri bambini prima di lui, e i grandi la domenica attenti a annotare chi non c’è, e portantini affaticati dal trasportare controcorrente casse di vecchi che da poco hanno smesso di esserci, e le vedove che hanno lasciato un solco sul lato dove le costringe il doversi appoggiare ai muri delle case. Per salire, lente. Per scendere, timorose.
Le braccia roteano nell’aria ad afferrare un equilibrio altrimenti compromesso dalle suole, anch’esse lisce, quasi consunte, dei sandali; effimero punto d’appoggio dell’incoscienza infantile della corsa. Nella testa roteano ancor più velocemente pensieri e sensazioni eccitati dal calore dei movimenti scomposti. Il gusto amarognolo della sfida: alla forza di gravità, alla tenuta delle gambe magre, alle proibizioni inascoltate della madre, a un record di velocità non omologabile.
La smania del rischio cercato cento volte, ogni volta aggiungendo una stupida regola, un inutile nuovo vincolo, per renderlo ogni volta diverso, più arduo.
La paura. La paura del fallimento. Non tanto della botta, le contusioni, le ginocchia sbucciate (l’incoscienza di bambino non prevede conseguenze più gravi), quanto dell’ira urlante della madre. Possono esserci sculacciate, addirittura uno schiaffo; ma le urla, la voce della madre che diventa stridula e si spezza in un singulto, questo è il peggio. E la faccia del nonno immobile, come spenta dalla violenza di quelle urla, il nonno che non può intervenire e trattiene per questo dentro di sé un dolore evidente.
La fiducia di farcela, di essere bravo, molto bravo, il migliore del paese. Nelle cento sfide lanciate giù per la discesa, una sola caduta; quando un insolito colpo di vento ha sollevato la gonna della Pieretti fin oltre il bordo delle calze nere a scoprire un bagliore di carne bianca, troppo giovane per una vedova, interrotto appena dalla traccia nera della giarrettiera. Un attimo. Meno di un attimo, ma è bastato. Una piccola distrazione, la caduta, la decisione di evitare per sempre di tentare quando la Pieretti avesse potuto salire i gradoni della chiesa Madre.
La regola aggiunta per la sfida di oggi è ritardare di un altro gradone l’inizio della frenata; perché bisogna cominciare a rallentare per tempo.
I gradoni si interrompono bruscamente sull’asfalto della nuova provinciale, uno stretto nastro a lutto che ha tagliato il paese e cancellato un pezzo della sua storia. La discesa della provinciale è ripida anche di più di quella della chiesa Madre e la incrocia subito dopo la curva (tutti dicono troppo stretta) imposta dalla vecchia trattoria del Franco. In verità avrebbero anche potuto buttarla giù la trattoria, come tante altre case. Da quando c’è la provinciale non ci va quasi più nessuno del paese; qualche vecchio così vecchio da non essere più in grado di cambiare abitudini per bere i suoi due, non di più, bicchieri di vino. E nessuno dei pochi guidatori che passano dalla provinciale ci fa caso: su quella discesa ostile non c’è neanche posto per fermarsi.
Quindi bisogna cominciare a rallentare per tempo per evitare di essere scaraventati senza controllo in mezzo alla provinciale proprio quando una macchina apparisse da dietro la curva. Succede di rado, il traffico è davvero scarso (e chissà perché l’hanno voluta fare quella provinciale) ma se capita bisogna poter decidere come fermarsi. Una volta, ed è la seconda volta che sono scoppiate le urla della madre dopo la Pieretti, la soluzione è stata di andare a sbattere contro il muro della casa rossa, l’ultima rimasta in piedi, già lambita dall’asfalto, al passaggio della provinciale e che da allora è rimasta sempre chiusa.
Ma da quella volta l’esperienza si è fusa nei muscoli e li ha resi d’acciaio, come la fiducia di farcela.
Adesso è il momento! Stringere i denti, farsi piccolo per premere con tutto il corpo sulle gambe a reggere il peso della frenata, schiacciarsi sulle suole consunte dei sandali a cercare ogni minimo appiglio sui sassi. Mentre da dietro la curva della trattoria del Franco appare la massa enorme di un camion dipinto di blu.
Qui si sveglia. Gli sembrano anni che ogni tanto fa questo sogno. Non si ricorda quando ha cominciato ma dalla prima volta gli è sembrato di averlo già sognate cento volte.
Si sveglia, sempre a questo punto. Si sveglia sempre, a questo punto, con il cuore appena accelerato e le stesse domande.
Sa di non aver mai visto quel posto: la discesa a gradoni di sassi tagliata dalla colata di asfalto della provinciale, la casa rossa e la trattoria del Franco, mai visti. E anche se sogna tutto in soggettiva e pensa nella sua testa ogni pensiero e sente nel suo petto ogni emozione, sa di non essere lui quel bambino che gli sembra uscito da un pessimo film neorealista. Sua madre non gli ha mai urlato né tantomeno lo ha mai colpito e non ha conosciuto nessuno dei suoi nonni.
Gli sono estranei il gusto della sfida, la smania del rischio, la paura del fallimento, emozioni che non gli appartengono.
La fiducia di farcela, quella sì, gli appartiene. Sa di essere bravo, molto bravo, sa trovare risorse e soluzioni per affrontare ogni giorno. Oggi sarà uguale.
E allora dov’è quel posto? Chi è quel bambino? Come deve interpretare quel sogno? Sognato cento volte? O forse era la prima volta e ha sognato di averlo già sognate cento volte?
Esce di casa con tutte queste domande che lo avvolgono, lo assorbono, mentre alla sua sinistra appare la massa enorme di un camion dipinto di blu.

Potrebbe essere l’inizio di un romanzo ricco di sfaccettature, ricordi, accadimenti, riflessioni. Leggendo viene voglia di chiedere all’Autore: e poi? Ma c’è anche della poesia nascosta, che occhieggia da dentro le frasi in prosa. Si aspetta il seguito…
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